The Departed di Martin Scorsese

focus top image

Questa sera alle 21.20 su Italia 1 torna un grandissimo film! The Departed - Il bene e il male di Martin Scorsese al quale Cineforum dedicò un ricchissimo speciale sul numero 459. Riproponiamo qui la recensione di Adriano Piccardi ma non perdere gli altri pezzi dello speciale! Trovi l'arretato in formato cartaceo e pdf su www.cinebuy.com.


Con The Departed Martin Scorsese ha dato il suo contributo alla pratica, diffusasi a Hollywood negli ultimi anni, del remake di pellicole made in Asia, realizzando un film che mantiene con il suo “originale” (quasi) tutte le corrispondenze narrative, ma anche riscrivendolo radicalmente per quanto riguarda lo spirito, il punto di vista della messa in scena sulla vicenda e i suoi protagonisti, la “lettura” alla quale la sua dislocazione da Hong Kong a Boston poteva dare adito. In altre parole, ha affrontato l’impresa con l’intenzione di portare alla luce il “cuore di tenebra” nascosto nella storia, che la trasposizione americana rendeva manifesto per chi volesse assumersi l’avventura e la responsabilità di andarlo a stanare.

Infernal Affairs (Mou gaan dou, 2002) di Andrew Lau e Siu Fai Mak costituiva sicuramente un punto di partenza ingombrante sia per il successo di pubblico ottenuto sia per la messe di premi raccolta in svariati festival. Un film che in certo qual modo ha ridefinito nella produzione hongkonghese il modo di praticare il genere poliziesco. La geometria dei rapporti fra i personaggi vi è delineata con tocchi secchi, stilizzati, quasi astratti; le accensioni di violenza sono poche, rapide, mostrate tutto sommato in modo discreto, quasi elusivo (unico momento insistito: la caduta e la visione del corpo di Wong, il capo-unità omologo del Queenan/Martin Sheen scorsesiano: momento in cui, evidentemente, deve essere sottolineato lo strazio dell’agente infiltrato Chan/Tony Leung di fronte alla morte del superiore che, oltretutto, è l’unico a conoscerne la vera identità). Infernal Affairs è prima di tutto un dispositivo attivato a verificare la tenuta e il grado di coinvolgimento che meccanismi narrativi ridotti all’osso e offerti a una messa in scena altrettanto affilata sono in grado di produrre e mantenere. Ne deriva che l’attenzione della storia si concentra più sul nodo concettuale che la sostanzia (il gioco delle identità nella loro attrazione/repulsione, il doppio tradimento come motore di un racconto a suspence dalle cadenze serrate) che non sulla consistenza sociale e morale dei personaggi e sul contesto storico di riferimento.

Un ottimo film d’azione, che non a caso, però, una volta ottenuto il successo, ha necessitato di un prequel e di un sequel per dare corpo, quantomeno, a quelle sfaccettature che fossero in grado di rendere maggiormente ragione della complessità dei caratteri dei due antagonisti, delle scelte per- sonali e dei conflitti interiori scatenati da queste. La sceneggiatura di William Monahan (Le crociate, Ridley Scott, 2005) non esita a scavare nelle pieghe che l’episodio originario offre, per chiaroscurarne la drammaturgia, le premesse e l’evoluzione dei personaggi, in particolar modo di Billy Costigan/Leonardo Di Caprio e Colin Sullivan/Matt Damon. L’obbiettivo è raggiunto aggiungendo informazioni, modificando e rimodulando episodi singoli rispetto a Infernal Affairs, così da ottenere un quadro generale più articolato e ricco di collegamenti, per un discorso che rilancia il senso generale ben oltre il semplice, per quanto riuscito, poliziesco d’azione.

L’intento è evidente fin dalle premesse, costituite dalla definizione del quadro socio-etnico in cui si radica il potere del sanguinario Frank Costello/Jack Nicholson. Non ci si limita qui a nominare la città (Boston), ma vi si indica il quartiere irlandese quale riferimento specifico, come territorio di guerra tra il boss, la polizia urbana e l’Fbi, ma anche come enclave da difendere dalle infiltrazioni di “etnie” estranee (la mafia italo-americana). È curiosa, tra l’altro, a questo proposito la scelta di Boston come location, che viene tre anni dopo Mystic River, film nel quale ancora si trattava di un quartiere delineato come una sorta di fortezza in cui un sistema di potere strutturato intorno al boss Jimmy Markum/Sean Penn si opponeva con ogni mezzo all’intrusione costituita dalle indagini delle forze dell’ordine.

Monahan e Scorsese scelgono in questo modo primariamente di dichiarare che la vicenda è calata nella carne viva di una nazione reale. Non un semplice esercizio di ricomposizione narrativa, e neppure “soltanto” la messa in scena di un discorso morale radicato nell’etica cattolica del regista, condotto con disperata consapevolezza fino alle sue estreme conseguenze. Ma anche nuova occasione per poter parlare, attraverso il racconto di una storia esemplare, di qualcosa che urge nel momento storico presente, che pesa cupamente sulla società statunitense odierna e che chiede di essere portato alla luce, esplicitato senza esitazioni. Qualcosa che si definisce nella tipologia dei rapporti che i personaggi intrecciano tra loro. I percorsi di Costigan e Sullivan vengono raccontati in montaggio parallelo: sconosciuti l’uno all’altro, sono impegnati in una ricerca reciproca di smascheramento, ma soltanto dopo la morte di Queenan e Costello le loro strade finiscono per incrociarsi dando luogo al conflitto diretto. Le mosse di Costello procedono a loro volta parallelamente su tre direzioni: quella relativa ai suoi traffici malavitosi (in cui è implicato anche Costigan, ma secondo modalità che in realtà a Costello medesimo sfuggono), quella concernente il doppio gioco di Sullivan nel corpo di polizia (doppio gioco che Costello pensa di controllare, ma che infine gli sfuggirà perché sarà Sullivan stesso a cambiare a sua insaputa il senso delle proprie mosse), quella infine – più occulta, e anche narrativa- mente utilizzata solo al momento in cui Sullivan motiva il proprio voltafaccia nei confronti di Costello – che riguarda il suo ambiguo ruolo di “informatore” dell’Fbi (che a sua volta, almeno nominalmente, cerca di incastrarlo lavorando insieme alla polizia di Boston). Nell’unità di polizia che indaga su Costello, d’altra parte, Sullivan agisce, come si è accennato, su due binari della cui esistenza deve a ogni costo tenere all’oscuro i suoi superiori e i suoi colleghi; ma nello stesso tempo egli non può sapere ciò che Queenan e il sergente Dignam conoscono circa l’identità di Costigan, infiltrato nell’organizzazione di Costello. Particolarmente patetico, per quasi tutta la durata del film, è infine il personaggio di Madolyn, la psichiatra della polizia, che intrattiene rapporti sia con Costigan sia con Sullivan, senza essere mai a conoscenza di chi essi siano realmente; anche se soltanto in ultimo, sarà però lei a ribaltare la situazione, divenendo la con- segnataria fatale di informazioni destinate a condannare l’ignaro Sullivan, ormai convinto di averla fatta franca.

Il quadro che emerge da questo resoconto è quello di una ricerca di controllo che accomuna sia le componenti legali che quelle criminali della società: un controllo che ciascuno vorrebbe totale, ben sapendo che tale non può essere, e dunque costretto a trovare il modo di neutralizzare continuamente e temporaneamente le mosse dell’avversario. Ci troviamo dunque dentro a un meccanismo di controllo pervasivo che sfugge tuttavia a sua volta ad ogni forma di controllo e che si autorigenera sterilmente nella prassi sanguinaria e consueta della ricerca del potere. Inevitabile il collegamento tra ciò che è rappresentato in The Departed e la realtà che gli Usa stanno vivendo in questi anni, con il clima pesantissimo prodotto dalla legittimazione di numerose intromissioni del controllo statale, poliziesco, nella vita privata delle persone, nelle azioni più comuni: negazione di quelle libertà fino a poco tempo fa considerate come organiche alla forma di democrazia che proprio gli Usa e i loro alleati avevano dichiarato di voler “esportare” per giustificare invasioni armate non richieste e aventi ben altri obbiettivi. Non c’è via d’uscita da una tale situazione, sembra dire il film di Scorsese. Mentre Infernal Affairs si conclude con la “conversione” di Lau di fronte alla tomba di Chan, Sullivan non prova alcun pentimento nel disporsi a riprendere la carriera dopo essere riuscito fortunosamente a seppellire, insieme a Costigan, il proprio passato di gangster infiltrato nella polizia. Neppure il silenzio sprezzante con cui Madolyn liquida il suo tentativo di riallacciare il rapporto, andato in pezzi dopo l’ascolto del cd su cui Costigan aveva inciso le voci intercettate di Sullivan e Costello, sembra scuoterlo: tor- nando a casa con i sacchetti della spesa sta probabilmente già pensando a come risolvere il problema che proprio la donna potrebbe costituire nell’immediato futuro. La presenza inopi- nata di Dignam nell’appartamento lo sorprende, ma immedia- tamente cerca di abbozzare una trattativa. Dignam lo uccide senza lasciargli il tempo di articolare alcunché. Perché si tro- va lì? Era probabilmente lui il destinatario del contenuto del- l’ultima lettera di Costigan affidata a Madolyn. Il passaggio di informazioni e la scelta di Dignam ci sono stati tenuti nascosti: ellissi che ci conferma la nostra impossibilità, come spettatori (e come persone comuni nella vita reale), di control- lo alcuno su ciò che si muove intorno a noi. Di fronte all’even- to conclusivo non ci restano che le ipotesi, spiegazioni possibi- li senza alcuna conferma. Una cosa è certa: non c’è nulla di legale nell’intervento di Dignam, lo testimoniano le precau- zioni che ha adottato per non lasciare impronte, indizi. L’omi- cidio con cui si conclude il film è dunque la prova definitiva che, per Scorsese, il sistema è privo di contromisure interne in grado di strapparlo alla logica prevaricatrice da cui è animato e sulla quale si basa per rigenerarsi continuamente. La morte di Sullivan chiude il cerchio degli ammazzamenti che ha avu- to inizio con la defenestrazione di Queenan, ma proprio il suo carattere di ulteriore illegalità ci dice che soltanto quel cer- chio si è chiuso: altri Costigan, altri Sullivan, altri Costello sono contemporaneamente in azione ovunque, in un processo di autoriproduzione del Male senza soluzione di continuità.

The Departed è dunque un film “politico” che si colloca a pieno diritto nel numero di altre prove recenti di cineasti che fanno i conti con la paranoia e l’aggressività statu- nitensi post 11 settembre 2001. Film in cui si respira tutta la contiguità tra il sistema criminale e il sistema politico e sociale di cui quello è parte integrante. Funzionali l’una all’altra, queste due entità contribuiscono in ultima analisi a garantirsi reciprocamente, in uno scambio di energie e di “possibilità” sempre attivo. Non sempre le cose funzionano alla perfezione: dalle smagliature inevitabili possono generarsi conflitti reciproci o interni alle singole due realtà, che paiono annunciare un futuro diverso, ma alla fine tutto rientra nei ranghi, le brecce si richiudono, l’architettura complessiva torna a consistere saldamente sulle comuni convenienze. Le tombe semicancellate che guardano la skyline di Manhattan nell’inquadratura conclusiva di Gangs of New York, mentre ci dicono di come gli statunitensi contemporanei abbiano preferito rimuovere un passato decisamente imbarazzante, nello stesso tempo ci istruiscono sul fatto che la separazione di interessi tra mondo criminale e mondo della politica è davvero stata definitivamente superata, relegata tutt’al più come memoria di un passato ormai lontano. Si tratta certamente di una visione cupa, plumbea dei rapporti di forza che ci attor- niano e ci sovrastano, non a caso traslitterati in The Departed nella invasività “bipartisan” degli strumenti di comuni- cazione elettronici e informatici. Ciò che nel film di Andrew Lau e Siu Fai Mak è rappresentato come attrezzatura tecnologica necessaria a uno scontro il cui esito dipende dalla superiore capacità nell’utilizzo di quella da parte di uno dei due contendenti, nel film di Scorsese (dove comunque è, ovviamente, anche questo) si trasfigura in vera e propria allegoria di una saldatura di interessi, che passa concretamente attraverso la padronanza condivisa del sistema comunicativo. Lo stesso sulle cui caratteristiche, ormai globalizzate, si va plasmando quella realtà di individuo che ci riguarda tutti: sempre meno in grado di scindere, nell’atto del comunicare, la componente di relazione con l’altro da quella di controllo e manipolazione da parte dell’altro medesimo o di un terzo (o di più terzi) ad essi sconosciuto. Con buona pace dei grandi padri dell’illuminismo e dei loro volenterosi attuali discendenti.