Questa sera su Rete 4, alle 21.15, un piccolo grande film di Steven Spielberg, The Terminal (2004). Riproponiamo alcuni frammenti della recensione di Umberto Mosca, comparsa sul numero 438 di Cineforum, nell'ottobre del 2004. Il fascicolo è disonibile sia in formato cartaceo che in pdf.
Questo film restituisce il cinema a un grado di semplicità per molti versi perduto nel panorama contemporaneo. Da un lato soprattutto a causa dell’imperversare dell’indigestione da effetti speciali (che puntualmente relegano la sceneggiatura in secondo piano), dall’altro per l’ossessionante ricerca di forme stilistiche e narrative originali (che spesso e volentieri si rivelano essere un po’ fini a sé stesse, perdendo di vista il discorso sul mondo). Come se anche la creazione cinematografica riproducesse quell’ansia di sensazionalismo a tutti i costi che pervade il mondo occidentale, quel bi- sogno disperato e pressoché insaziabile di distinguersi continuamente, di affiorare dalla massa informe in ogni aspetto della vita sociale.
[…] The Terminal assomiglia a Prova a prendermi perché sa trasformare un fatto di cronaca (il caso dell’esule iraniano prigioniero in un aeroporto è in corso da oltre dodici anni al Charles de Gaulle di Parigi) in un sapiente lavoro di sceneggiatura volto a privilegiare la credibilità e lo spessore di un personaggio.
È dunque la facilità professionale con cui Steven Spielberg racconta storie piccole ma memorabili a definire la “classicità” del suo cinema più recente, un modello di commedia sospeso tra il comico e l’amaro in cui la robustezza del personaggio può tranquillamente permettersi il lusso di porre in secondo piano quelle vicende amorose che di solito finiscono per impossessarsi di un film, mascherando la scarsità di idee con il solito tormentone sentimentale, peraltro ampiamente prevedibile.
[…] L’onestà di Spielberg risiede nella volontà di non tradire la necessità del suo personaggio e, di conseguenza, la necessità del film. Raccontare perché si vuole e si ha qualcosa da dire allo spettatore non è certo una cosa da poco, di questi tempi in cui il medium è il fine e più nessuno crede ancora a quello che dice.
Una storia individuale come paradigma di un intero sistema: è questo lo schema seguito dall’autore di The Terminal. È grazie al “corpo estraneo” Viktor Navorski che vengono poste in luce le contraddizioni dell’America di oggi, di un sistema che, come suggerisce il titolo, sembrerebbe esser davvero giunto al capolinea. Il meccanismo è molto semplice, ma di sicura efficacia: si prende un elemento che possa essere difficilmente riconducibile, o che per qualche ragione tenda a entrare in contrasto con l’insieme in cui si trova, e gli ingranaggi di questo insieme iniziano a mostrare l’usura.
Era il caso della “scheggia impazzita” Frank Abagnale, che da solo metteva in crisi non solo un intero sistema economico e di sicurezza, ma anche i valori ad esso correlati. Viktor Navorski e Frank Abagnale sono entrambi personaggi marginali, figure che l’America di ieri e di oggi ha messo fuori gioco con le sue regole miopi e disumane.
Il terminal del film omonimo, interamente ricostruito in studio in cinque mesi di lavoro (a proposito: come fa Spielberg a essere ancora amico di Lucas dopo gli scempi digitali di Star Wars?), è evidentemente il microcosmo dentro al quale l’autore organizza la sua visione contemporanea. La visione di un mondo che si è globalizzato solo in un senso: se l’America possiede tutti gli strumenti (tecnologici, economici, militari) per recarsi con disinvoltura in ogni angolo del pianeta, lo stesso non vale per coloro che da quegli angoli provengono (Viktor sa appena due parole di inglese, prese dalla guida di New York e appiccicate in testa alla bell’e meglio). La visione di un mondo che vive asserragliato in una dimensione fredda e impersonale (come sono, almeno nella loro esteriorità architettonica, le strutture di servizio negli aeroporti) in cui si può trovare tutto tranne la felicità. […]