Questa sera su Rai5 (canale 23) alle 23:00 Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza di Roy Andersson, Leone d'oro al 71esimo Festival di Venezia. Riproponiamo la recensione di Federico Pedroni scritta per il sito (segnalandovi anche gli articoli di Lorenzo Rossi e Bruno Fornara scritti rispettivamente per Cineforum 538 – speciale festival di Venezia - e per Cineforum 543).
“Sono contento di sapere che vada tutto bene”, si ripetono al telefono come un mantra i disperati e soli passeggeri – più che personaggi – del nuovo film di Roy Andersson, Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza, capitolo conclusivo di una “trilogia sull’essere un essere umano” e seguito ideale di Songs from the Second Floor (2000) e You, the Living (2007).
Il film è composto da trentanove piani sequenza perfettamente fissi, declinati in una gamma di tonalità spente – dall’ocra al verdognolo – che si ravvivano con qualche improvviso accenno di colore, animati da personaggi tragici nella loro comicità (o viceversa) che affollano le stanze di negozi, bar, sale da ballo, camerette in condomini-prigioni per svelare con parsimonia la miseria delle loro esistenze.
Andersson inquadra tutto e tutti frontalmente, con una strabiliante profondità di campo che genera movimento nella fissità e simmetria nel caos, lasciando vagare l’occhio nelle spoglie scenografie per cogliere il dettaglio capace di risvegliare il quadro, di creare l’eccezione, di cogliere un senso.
Attraverso una narrativa ipnotica e multiforme – che sembra seguire una libera associazione mentale – racconta bozzetti sulla morte che ricordano antiche storielle ebraiche, coreografa a tempo di musical delle incursioni malinconiche nella memoria alcolica di un tempo fatto di bariste zoppe che scambiano grappe con baci, frulla passato e presente inscenando l’irruzione di un re tronfio bisognoso di acqua e consolazioni proibite in un bar della periferia di Göteborg, segue le peripezie di due tristissimi venditori di scherzetti scadenti – maschere improbabili, denti di vampiro, scatole che ridono – che sognano di regalare briciole di felicità (e qui la suggestione rimanda a un Beckett ulteriormente scarnificato), rilegge la storia coloniale come esperimento di infernale divertimento per un pubblico di potenti incartapecoriti che suggono champagne di fronte allo spettacolo della sofferenza.
Andersson studia la composizione dell’immagine attraverso molteplici riferimenti di matrice artistica e pittorica – dai tableaux vivants alle luci hopperiane condite da riminiscenze fiamminghe – e trasforma luoghi e personaggi in nature morte pronte ad accendersi con scatti imprevedibili. Ma oltre alla smagliante perfezione stilistica si nasconde una riflessione filosofica sulla vita e sulla morte che si fonda su un pessimismo mai sadico, su un cinismo esistenziale che non preclude una forma di pietà etologica nei confronti dell’umano, su un fatalismo assoluto che però non cancella né la matrice morale né un ormai annebbiato residuo di solidarietà.
Si ride amaramente di questi derelitti terrei, vittime di un’umanità cristallizzata, persi in una vita non vissuta che li ha trasformati in zombies innocui. Ma la risata non è mai di scherno: Andersson ci insegna che quegli uomini sono nostri fratelli nella deriva esistenziale di un mondo crudele, bisognosi di una dolente compassione, di un barlume di scanzonata e funerea nostalgia.