Questa sera su Italia 2 (canale 35) alle 21:10 V per Vendetta uno dei film cult del decennio scorso diretto da James McTeigue ma scritto da Lana e Lilly Wachowski e tratto dalla grafic novel di Alan Moore e David Lloyd. Qui un lungo estratto della recensione di Andrea Bordoni e Matteo Marino da Cineforum 454 del maggio 2006 (disponibile in versione catacea o pdf)
V per Vendetta, visivamente affascinante, ha molti punti in comune con Matrix – anzi è vero il contrario, dato che i Wachowski scrissero un primo adattamento del fumetto già a metà degli anni Novanta, e alcuni temi sono evidentemente confluiti nella trilogia fantascientifica che ha chiuso il millennio (e che ha ereditato la filosofica verbosità di V). Sia Neo sia V sono ribelli che combattono per sconfiggere il sistema, e la scelta è sempre quella tra pillola rossa e pillola blu: vedere o non vedere, agire o rimanere fermi. Se politicamente il film resta su molti punti in superficie e cerca di rendere le sue allegorie le più vaste possibili (dai lager a Guantanamo), a un livello più intimo ha il pregio di mostrare le possibilità infinite di ognuno, la necessità della presa di coscienza (di se stessi e della realtà), l’importanza della libertà personale. Ancora Matrix, ma con sostanziali differenze. Neo e compagni attingono alla filosofia orientale per cui la mente è l’arma, e può guidarci ovunque, consentire al corpo ciò che vuole. Se l’individuo riesce a entrare in armonia con l’universo, l’individuo è l’universo. Così non è necessario aprire gli occhi per combattere, si può danzare in mezzo ai proiettili e ogni legge fisica può essere ridiscussa. V per Vendetta è più ancorato a concezioni occidentali. Anche qui bisogna lavorare su se stessi, ma liberarsi dalla sottomissione è liberarsi dalle paure cuciteci addosso da altri: rinunciare al conformismo, togliersi la maschera che le convenzioni ci costringono a indossare in nome dell’integrazione. Dall’individualità nasce la forza delle idee. È per questo che V si circonda delle opere d’arte che il governo mette al bando e sequestra, simbolo delle potenzialità dei singoli. Tempestati dalle immagini approvate dei tg e da quelle monotone ed euforicamente vuote degli show televisivi, siamo ciechi, viviamo in una gabbia di inconsapevolezza. Quando Evey scopre la sua prigionia e le torture da parte del governo non essere altro che una messa in scena di V, gli domanda tra le urla e le lacrime come ha potuto farle questo, come ha potuto metterla in gabbia. V le risponde che era già in gabbia, lui le ha fatto solo vedere le sbarre. L’ha imprigionata per renderla libera. L’ha privata di ogni cosa fino a lasciarle solo un centimetro, la propria integrità, e quel centimetro non è stata disposta a perderlo neanche in cambio della vita. Così V ha esaudito il desiderio che Evey stessa aveva espresso: vincere la sua paura.
V trasmette alla ragazza un’esperienza di vita che non deve andare perduta, trasmessagli a sua volta dalla sua vicina di cella nel campo di concentramento di Larkhill. È la storia di Valerie, una donna che ha vissuto su di sé i limiti estremi dell’amore e dell’odio. È stata prima emarginata e scacciata in quanto lesbica, poi accolta, sostenuta e ricambiata come compagna. La vita toglie e la vita dà, e poi toglie di nuovo (gli omosessuali diventano uno dei bersagli del regime), ma chi ha amato saprà per sempre che l’amore esiste. Così Valerie ama l’essere umano nella cella accanto alla sua anche senza conoscerlo, senza sapere nemmeno se sia uomo o donna.
Quella della reclusione è la scena di maggior impatto emotivo del film, e ne è il cuore. L’unico modo che ha V per comunicare a Evey l’irrinunciabilità della lotta e farle capire la scelta di mezzi così estremi per combatterla è costringerla a rivivere il suo stesso calvario e la sua stessa iniezione di speranza. Il gesto di un folle, certo, ma così razionale. Il risultato però è inaspettato: il modo di reagire di Evey alla prigionia è completamente diverso da quello di V e, pur condividendone gli scopi e ora comprendendolo più che mai, non ne avalla comunque gli atti criminali. In un elemento fondamentale le due esperienze divergono. Quella di V è stata priva di senso e, per le cicatrici riportate sul corpo e nella psiche, è irreversibile. Il virus sperimentato su di lui l’ha trasformato per sempre rendendolo più forte, ma anche le sue idee sono irrimediabilmente infette. Insomma per V non c’è alternativa, deve uccidere tutti i suoi aguzzini, anche quelli pentiti (la dottoressa Surridge, che lo accoglie con dolcezza e vive la sua morte come la liberazione dal senso di colpa). Le sue azioni, una volta messe in moto, sono inarrestabili, come le tessere del gigantesco domino che lo vediamo costruire nel film. Patriota o terrorista, la sua è una visione del mondo univoca e senza sfumature. Resosi conto di questo grazie al suo rapporto con la ragazza, alla fine decide di non compiere l’ultimo attentato. Fa scegliere a Evey, che si è liberata da ogni condizionamento, compreso quello del suo mentore. È uscita dalla prigionia come rinata, pura, il libero arbitrio le è stato restituito e ha tutte le possibilità: andare avanti, cambiare direzione o fermarsi. Per questo V fa scegliere a lei, a “Eva”, perché la rivoluzione sia una vera scelta e non l’ennesima manipolazione, la tentazione di un cattivo maestro.
Caratteristica precipua dei Wachowski è la loro particolare vena citazionista. I due fratelli, nell’appropriarsi di immagini, simboli, o interi personaggi già cult, hanno una naturale capacità di reinvenzione, arrivando a creare qualcosa di nuovo ed epocale. Matrix ne è l’esempio perfetto, ma anche V per Vendetta, che porta la loro firma solo come sceneggiatori (il film è diretto da James McTeigue, che si è fatto le spalle nel mondo dei videoclip e come assistente di Lucas per Star Wars e dei Wachowski stessi), è un concentrato di riferimenti e allusioni in cui è divertente perdersi, non solo per un cinefilo. Si va dall’eroe britannico e romantico stile Primula Rossa al vendicatore evaso del classico Il conte di Montecristo del ’34 con Robert Donat, al quale V si ispira per i suoi duelli all’arma bianca, da Orwell 1984 di Michael Radford (con John Hurt in questo caso vittima del Grande Fratello) alla guerra di popolo di La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, dai divieti di Fahrenheit 451 di François Truffaut al sorriso di Joker e alla bat-caverna. I due protagonisti, la giovane reclusa da un uomo che nasconde un aspetto sfigurato sotto una maschera, rimandano chiaramente al testo letterario di Leroux e alle numerose trasposizioni cinematografiche di «Il fantasma dell’Opera». Un paragone più sottile potrebbe essere fatto con La Bella e la Bestia: la casa della Bestia/V è piena di meraviglie che affascinano la Bella/Evey; il più grande desiderio di lui è poter danzare con lei, scena centrale anche nel film della Disney; con la convivenza il loro rapporto sboccia, come quelle rose che sia la Bestia sia V non vogliono e non possono fare appassire, e diventa affetto, portando a una trasformazione. Salvo che, rovesciando i termini della favola, in V per Vendetta non sarà la Bestia a diventare piacente come la ragazza; al contrario lei, privata dei capelli, picchiata e torturata, si avvicinerà a lui abbrutendosi, affinché un’altra trasformazione, tutta ideologica e interiore, possa porre fine all’incantesimo che la sottomette.