Si avvicinano gli Oscar e, naturalmente, si scatenano i pronostici. La partita per il miglior attore protagonista si gioca quest’anno tra Christian Bale (American Hustle), Bruce Dern (Nebraska), Leonardo DiCaprio (The Wolf of Wall Street), Chiwetel Ejiofor (12 Years a Slave) e Matthew McConaughey (Dallas Buyers Club).
Lasciando da parte il vecchio Bruce e lo schiavo Chiwetel, rimangono in tre: uno ingrassato, uno dimagrito e uno strafatto.
E non è un caso. Da quando De Niro si mise addosso quegli stupefacenti trenta chili per essere Jack La Motta allo sfascio nel finale di Toro Scatenato, la performance attoriale sembra infatti che si misuri, e sempre più spesso, in gran parte sulla bilancia. Ma quando e come e dove questo sforzo di lavoro estremo sul corpo viene richiesto all’attore a ragion veduta? Quando è reso necessario dalla ricostruzione e dalle esigenze narrative? Quando assume un vero ruolo dal punto di vista filmico, quando produce senso, e quando invece diventa pura ricerca della prestazione magari, perché no, proprio in funzione di una conquista dalla statuetta?
Potrebbe essere molto lungo l’elenco delle metamorfosi fisiche al cinema e in questi giorni si sono sprecati ovunque i pezzi dedicati ai corpi follemente trasformati degli attori: dai chili di muscoli acquisiti da Will Smith per Ali a quelli di grasso persi da Tom Hanks per Cast Away, dal peso smaltito da Christian Bale per L’uomo senza sonno o da Fassbender per Hunger a quello preso da Matt Damon per The Informant e così via… Ma questa può essere considerata la cifra determinante per distinguere la qualità della performance di un attore?
C’è la questione della ricostruzione, che ovviamente si pone nel momento in cui si mette in scena una storia vera e i personaggi sono uomini o donne realmente esistiti, e c’è la questione della credibilità della messa in scena (non poteva certo Tom Hanks essere credibile avanzando verso la morte per Aids in Philadelphia se non riducendo il suo fisico fino a renderlo diafano, scarno ed emaciato).
Restiamo ai candidati.
Matthew McConaughey è diventato un signor attore (come analizza Mariapaola Pierini). In Dallas Buyers Club si carica sulle spalle il film, per altro mediocre: e lo fa innanzitutto proprio con il corpo scavato all’inverosimile e il volto ossuto dimentico delle vestigia del play boy. Ma lo fa anche con i gesti, con il continuo tirarsi su i jeans che scivolano sempre più inesorabilmente verso gli stivali da cowboy, l’unica cosa rimasta a reggerlo in piedi, e con l’accento texano che lo trascina via nel fiume di parole che si legano l’una all’altra senza soluzione di continuità... Esigenze di copione o no, la sua interpretazione, con annessa metamorfosi, è certo impressionante, controllatissima, rigorosissima, giustissima, pure troppo, talmente tanto che pare proprio messa giù a tavolino (come tutto il film del resto) per convincere l’Academy.
La vera performance dell’anno di McConaughey, piuttosto, sta in quei dieci minuti assoluti all’inizio di The Wolf of Wall Street. Anche lì magro (probabilmente per coincidenze di shooting) ma chi lo ha sottolineato? Chi si è chiesto quanto somigliante fosse al vero Mark Hanna? (La risposta per altro è per nulla). Chi, di fronte a quel vulcano in eruzione, non si è lasciato semplicemente investire dalla sua iperbolica loquela in un crescendo che culmina nella scena del ristorante, nel mantra che intona di fronte a Wolfie battendo ritmato il pugno sul petto e segnando per sempre la sua esistenza? Oscar come attore non protagonista, non candidato ovviamente, ma gigantesco, grasso o magro che sia.
E poi c’è Christian Bale, che delle altalene ponderali è uno specialista e che, nel suo sodalizio con David O. Russell, dimostra la differenza tra la funzione e la finzione di questo tipo di operazioni. Prima di ingrassare per American Hustle era dimagrito per The Fighter; lì la magrezza dell’ex pugile prosciugato dal crack però era funzionale non solo alla credibilità del personaggio ma proprio alla sua costruzione filmica: la metamorfosi era necessaria, infatti, a trasformare Bale in quel paradossale spettro ballerino, in quella grottesca maschera scheletrica della disperazione, perfetto dentro a quel corpo devastato eppure nevrile, come perfette erano le pettinature della madre o le fisicità sfatte delle sorelle.
Ma in American Hustle (altro film mediocre a fare incetta di candidature) quale è la funzione di quel ventre enorme? Quanto sono necessari alla costruzione filmica del personaggio la camicia aperta a mostrare che la pancia è di ciccia vera e i boxer che scoprono le gambe gonfie dell’attore? Sarebbe bastata la sequenza iniziale della sistemazione del riporto, quel disperato tentativo di finzione, a dire tutto su Irving; sarebbe bastato il giro tra gli abiti appesi nella lavanderia a dire del rapporto tra lui e Sidney; sarebbe bastato molto meno, in tutto il film, molto meno: ma forse avrebbe voluto dire anche molte meno nomination.
E infine c’è DiCaprio, che non è né più grasso né più magro di sempre, che mette in scena un uomo realmente esistito ma con poca preoccupazione di restituirne fedelmente la fisicità; quello che interessa è altrove, nella foga tossica di quell’uomo, nel suo furore cieco, nella sua istrionica amoralità e non è per forza la bilancia a dover dire quanto di peso sia la sua performance.