«Nell’est il nuovo non rimpiazza il vecchio, ne diventa parte». In una delle tanti frasi che attraversano lo spazio sonoro dell’ultimo film di Aleksej German jr, Dovlatov, colte nel brulicare di voci e rumori ambientali di lunghi piani sequenza in interni, risiede la consapevolezza della condizione di un intellettuale e di un’artista nella cultura russa.
Sergej Dovlatov, scrittore e giornalista russo di origine ebraica nato nel 1941 a Ufa, vissuto per diversi anni anni a Leninigrado, osteggiato dal KGB perché non iscritto all’Unione degli scrittori sovietici, emigrato negli Stati Uniti a fine anni Settanta dopo diversi e inutili tentativi di veder pubblicate le proprie opere, e poi morto a New York nel 1990 finalmente edito e riconosciuto, è la figura di un escluso che cerca invano di far parte della storia del proprio Paese. Un uomo dall’altezza smisurata, sempre troppo grande e fuori posto, padre svagato, marito sul punto di divorziare, scrittore senza libri, poeta senza voce.
Della vita di Dovlatov il film racconta solamente sei giorni del novembre 1971. Fin dall’inizio, la sua voce narrante rimarca come il clima di libertà degli anni Sessanta sia finito e il nuovo decennio abbia portato con sé il gelo di nuove restrizioni. Dovlatov non pubblica, collabora svogliatamente per due riviste, si rifiuta di scrivere nel modo suggeritogli, parlando cioè di cose vere con tono ottimista, senza ridicolizzare la realtà e la storia russa. Con lui ci sono gli artisti anch’essi esclusi di un’epoca figlia di una tradizione che ha avuto in Mandel'štam (morto in un gulag nel 1938) la sua ultima grande figura e che negli anni Settanta di Brežnev (che Dovlatov sogna continuamente) sa di non possedere una voce e di essere relegata nel chiuso di case e locali affollati.
Accanto a Dovlatov c’è soprattutto Iosif Brodskij, il poeta che sarà espulso nel 1972, che morirà anch’egli negli Stati Uniti e che vincerà il Nobel nell’87: «Siamo l’ultima generazione a cui forse verrà concesso il privilegio di salvare la lingua russa», dice a un certo punto, facendosi portavoce della paura più grande per un artista, quella di sparire e prima ancora di mancare l’aggancio con il proprio patrimonio e il proprio passato.
Durante le riprese di un film celebrativo che Dovlatov è costretto a seguire, lo scrittore incontra alcuni attori che interpretano le figure gloriose di Puškin, Dostoevskij, Tolstòj, tutti impegnati a sostenere pubblicamente l’URSS, tutti a ricordare come la principale prerogativa del potere sia quella di appropriarsi del tempo e della realtà, modificandone la percezione e il valore. «Le nostre opere esistono, sono reali», dice Dovlatov, «ma l’autorità nega la realtà»: e per questo ogni figura del film, a cominciare dal protagonista, svanisce nello spazio, nelle nebbia e nel gelo. Dovlatov resiste alle richieste dei suoi caporedattori di intendere il mondo in termini netti e distinti, rivendicando la forza di una letteratura senza eroi, senza i concetti di giusto e sbagliato, di positivo e negativo: ma proprio per questo sa di non poter emergere da una realtà rivendicato come ampia e inafferrabile.
In tal senso, l’uso del piano sequenza, che soprattutto attraverso il sonoro trasforma lo spazio scenico in una dimensione fluida, dà conto di un’orizzontalità in cui la voce dell’intellettuale viene zittita dal movimento della vita, del potere e delle sue dinamiche oscure, per quanto fin troppo comprensibili. La stessa incertezza tra realismo e sogno confonde il racconto dell’afasia di Dovlatov, impossibilitato a scrivere, ma anche incapace di farlo, figura di una stagione della storia sovietica che nell’uniformità dei colori e dei toni costruisce la propria letale monotonia.
Il Dovlatov di German, solo per le strade di Leningrado con il suo cappotto nero, non è l’intellettuale che fronteggia la Storia ponendosi la domanda sul proprio ruolo, come in un film di Anghelopoulos. Dovlatov non è solo, ma è circondato di gente; può ancora scegliere, sa di poter sbagliare, vede, capisce, scrive anche, commenta e reagisce, ma non comprende. Non giudica ancora la Storia, non se ne sente escluso e nemmeno se ne tira fuori. Semplicemente, è confuso nella realtà e insieme tagliato fuori da essa.
Per questo, alla fine del film, le didascalie sul destino tragico ma glorioso suo e di Brodskij sono inutilmente celebrative e fuori tono (e chissà quanto peso può aver avuto quel ringraziamento a Nikita Michalkov…) e gettano un’ombra di ambiguità sul senso del progetto. Dovlatov, il film, non può e non deve essere la biografia di un reietto diventato un gigante del canone letterario russo, ma piuttosto il racconto delle sei giornate di uno sognatore che in vita non ha potuto, e forse nemmeno saputo, diventare uno scrittore del proprio tempo.