C’è un omone corpulento e rozzo, sporco, ubriaco, con la barba incolta e perennemente in viaggio. C’è la strada, quella americana, quella che ha ispirato migliaia di artisti. C’è l’inseparabile chitarra che per tutto il film dialoga con il suo migliore amico, l’inchiostro, per dar vita a una canzone indimenticabile. Ci sono numerosi locali in cui sfoggiare le proprie qualità e bere tanto alcol. C’è una musa, in carne e ossa, l’amore di una vita sempre pronta ad aspettare pur sapendo di poter coprire solo il ruolo del terzo incomodo perché la sfida sentimentale con la musica si perde sempre. Ci sono insomma tutti gli elementi per un altro film basato sulla vita di un musicista che non ce l’ha fatta, uno che non è nemmeno bello (oltre che essere dannato). Uno che è stato dimenticato in fretta ma che forse non è nemmeno mai stato conosciuto.
Ethan Hawke adotta uno sguardo semplice e classico per portare sullo schermo la leggenda (?) di Blaze Foley, ben conscio dei propri limiti e intenzionato a non intraprendere alcuna gara a distanza con chi recentemente ha dimostrato di saper dominare la materia (il paragone con il Llewyn Davis dei fratelli Coen è davvero ingombrante). Quello di Hawke non vuole essere un film concettuale, ma più semplicemente un grande omaggio da parte di chi nutre ancora l’amore per una certa musica e certi cantanti (lui, in cabina di regia) e chi invece quell’amore l’ha provato sulla propria pelle (la vera musa e compagna di Foley, Sybil Rosen, alla penna del romanzo che ha ispirato il progetto).
Mettendosi completamente al servizio della storia, Hawke è il primo spettatore del suo film. Decide di prendere il via da un’intervista radiofonica. Un giornalista chiacchiera con quelli che Blaze hanno avuto modo di conoscerlo per davvero e si lascia cullare dai racconti. Non vedremo mai il volto dello speaker, ma sappiamo che è lo stesso Hawke a interpretarlo. Una dichiarazione d’intenti più che evidente: raccontare una storia mentre ancora la si ascolta. Ecco allora che tutte le imperfezioni, lungaggini e ripetizioni che Blaze cova al suo interno, sono dovute proprio alla mancanza di uno sguardo cinematografico lucido e distaccato, uno sguardo volutamente acciecato dalla passione e dall’incanto che una storia d’amore (anche musicale) sa generare.
Esattamente come viene ricordato dal protagonista, infatti, l’uomo è mortale, «ma la musica durerà in eterno». Una sentenza che non aggiunge nulla di nuovo a quanto già detto, scritto e raccontato sino ad oggi, ma che Blaze (ri)propone nella sua maniera cialtrona e leggera proprio perché, semplicemente, lo pensava anche lui.