C’è stato un momento nella storia della politica americana più o meno recente, nel quale il rapporto fra i cittadini e i leader politici è cambiato per sempre. Un punto di non ritorno che ha fatto sì che venisse meno una specie di patto di fiducia che era fin lì sempre esistito fra gli elettori e i loro rappresentanti nelle istituzioni. Un patto retto sulle idee, sui credo, sulle concezioni politiche e sulla visione della società che accomunano i primi ai secondi. È successo quando è crollato un muro che, pur avendo sempre un po’ vacillato, era riuscito a mantenersi in piedi: quello fra sfera pubblica e privata. Questo momento si è verificato più o meno a metà degli anni Ottanta ed è proprio l’individuazione e la descrizione di quel particolare attimo storico che The Front Runner – Il vizio del potere racconta.
Il film di Reitman riporta alla luce lo scandalo sessuale che costò la candidatura per la corsa alle presidenziali del 1988 come esponente democratico a Gary Hart, all’epoca senatore dimissionario del Colorado e superfavorito – cioè front runner – nelle primarie del partito dell’asinello. La reputazione di Hart venne demolita nel giro di pochissimi giorni – e a meno di tre settimane dal voto delle primarie – a causa della messa in circolazione, da parte del quotidiano Miami Herald, di notizie riguardanti una presunta relazione extraconiugale dell’ex senatore con una giovane modella di nome Donna Rice. Il polverone che si alzò fu tale che Hart fu costretto a ritirare la propria candidatura e le primarie furono vinte da Michael Dukakis il quale poi perse le presidenziali contro George Bush Sr.
Il film ripercorre con fedeltà e rigore tutta la vicenda isolando il personaggio di Hart – e descrivendo la drammatica escalation che determinò la sua esclusione – attraverso i rapporti del protagonista con la propria famiglia, l’entourage di collaboratori che gestisce la sua campagna elettorale e i giornalisti e i reporter che lo seguono durante i comizi e gli eventi pubblici. Ovvero non viene dato alcuno spazio al confronto fra Hart e gli altri candidati democratici o fra lui e gli avversari repubblicani. Non si entra praticamente mai nel merito della visione o dei programmi politici del candidato, trascurando per tutto il film il profilo istituzionale di Hart. Una scelta precisa che risulta perfettamente funzionale al tipo di racconto che Reitman costruisce. Una storia politica che sposta il focus del proprio interesse sulla sfera personale e che dimostra – in un’assoluta consonanza con il battage mediatico dell’epoca – di tenere a guardare molto più il come che il cosa, ovvero a determinare le azioni di un uomo politico non in funzione del pensiero pubblico ma piuttosto delle azioni private.
«Quando Lindon Johnson assunse la carica di Presidente parlò con alcuni di noi dicendo che negli anni a seguire avremmo visto molte signore entrare e uscire dai suoi appartamenti. E che si sarebbe aspettato dalla stampa la stessa discrezione e indulgenza mostrata con Jack» dice – nel film – il direttore del New York Times ai suoi collaboratori durante una riunione di redazione, aggiungendo che da allora le cose sono molto cambiate e ora nessuno potrebbe permettersi un simile comportamento. È forse qui il senso di The Front Runner. La colpa più grave di Gary Hart non è quella di aver tradito la moglie in maniera maldestra di fronte agli occhi della nazione e nemmeno di aver mentito alle domande ricevute al riguardo. Ma piuttosto quella di non aver capito per tempo di vivere in un periodo storico – quello definito dal reaganismo – in cui si stava radicalizzando un pensiero puritano al quale avrebbe fatto seguito una concezione moralistica della politica. E all’interno della quale il volto pubblico degli uomini di potere sarebbe contato più di qualsiasi altro aspetto della loro vita. Hart, nel film, difende testardamente il suo diritto alla privacy e rivendica a più riprese l’importanza assoluta della propria prassi politica, non rendendosi conto che il valore di quest’ultima, nel 1988, non aveva più alcun valore se tarata in confronto alla questione morale. Ben altro che un incidente di percorso o di una serie sfortunata di eventi. Il protagonista dimostra, in ultima analisi, di essere inadatto al ruolo che ricopre proprio per via di queste mancanze e di meritare ampiamente le infauste conseguenze che si abbattono su di lui.
Ma c’è di più: come dice nel film una giornalista del NY Times a un collega, Hart è anche un uomo (forse d’altri tempi) che non ha chiaro quanto all’accrescimento del potere corrisponda l’accrescimento delle responsabilità individuali e quanto comportamenti superficiali nei conforti del sesso femminile – al di là delle semplici corna alla moglie – siano la cartina tornasole di un maschilismo gretto e indolente. Un dialogo, questo, che forse non sarebbe mai stato inserito nel film se non si fosse in epoca di #metoo e che probabilmente confonde eccessivamente le acque – mettendo nello stesso calderone ambiti e questioni differenti – ma che rende esplicita l’ingenuità e la goffaggine di Hart rispetto alla gestione del proprio ruolo pubblico. E del resto un film con così tanti ovvi ed espliciti riferimenti al presente non può non far pensare a fatti dei nostri giorni come le accuse di reato sessuale rivolte a Trump o lo scandalo Kavanaugh (giusto per dirne due).
Ma fa pensare come anche qui dalle nostre parti sia cambiata la percezione, nel corso degli anni, in merito ai casi come quello di Hart. E quanto l’interesse per la vita privata di politici e uomini di potere abbia inquinato i giudizi dei cittadini riguardo l’esercizio della politica. Ai tempi dell’affaire Lewinski nel nostro Paese si sosteneva quasi unanimemente che una cosa simile, se fosse accaduta in Italia, non sarebbe interessata quasi a nessuno. Poi è venuto Berlusconi, i bunga bunga e Ruby Rubacuori. Oggi siamo sicuri che potremmo ancora affermare lo stesso?