Polvere di stelle. A diciannove anni Lenny Cooke ha il mondo ai suoi piedi: nessuno gioca a basket come lui, persino il coetaneo Lebron James gli è dietro nella classifica delle grandi promesse della pallacanestro americana. Ma il talento può essere un fardello invece che un dono, se non sai destreggiarti nella giungla di quelli che ti stanno intorno: parenti e amici, allenatori e agenti, tutti prodighi di consigli, complimenti, pacche sulle spalle, suggerimenti sul modo di spendere la pila di soldi che sei destinato a guadagnare.
Ma i soldi - che pure sono lì, dietro l’angolo – devono ancora arrivare, e Lenny intanto fa scelte sbagliate e insensate, se sbagliata si può chiamare la decisione di prendersi un anno per studiare, e insensata la voglia di un ragazzino di fare tardi alle feste. Succede allora che il basket professionistico si dimentica di te, sotto i riflettori finiscono altre stelle, e tu rimani lì, con lo sguardo di uno che ha appena perso il treno della vita.
Dieci anni dopo, il giorno del suo trentesimo compleanno, Lenny è un ciccione qualunque che festeggia circondato da gente qualunque. Birra e divano, un Homer Simpson di periferia, lo sguardo incollato alle immagini televisive di una partita di basket dove folleggiano quelli che il treno della celebrità l’hanno preso davvero, e si godono il viaggio.
La sequenza in cui Lenny l’anonimo va al Madison Square Garden a salutare gli ex compagni di allenamento e belle speranze, ora tutti affermati e famosi, è tra le più struggenti degli ultimi anni. E la tristezza sta negli occhi dei campioni di oggi, che lo salutano, lo abbracciano, gli danno un cinque, gli regalano complimenti (“da ragazzino non vedevo l’ora di giocare contro di te”) profondi come coltellate. E Lenny sorride, abbozza, riavvolgendo mille volte nella sua testa il film di una giovinezza dissipata senza coscienza. Ma non avere coscienza, a vent’anni, è un crimine o un merito?