A leggere certi commenti, sembra quasi che la Mostra del Cinema 2014 sia già finita. Dilaga su blog e social network il vezzo del giudizio preventivo, in forma di aforisma (chi è il più arguto del reame?), di analisi fiume dettagliatissime (neanche avessero già visto tutti i film), di articoli velenosi a metà strada fra il cinefilo e l’algebrico, basati sulla comparazione tra ciò che doveva-poteva esserci e ciò che invece ci sarà.
Il direttore Alberto Barbera, sornione ed elegante, punzecchia gli assenti, che al mondo del cinema prediligono quello della comunicazione (pesa ad esempio il “no” dei produttori di Paul Thomas Anderson e David Fincher), e mostra una certa sicurezza riguardo la varietà e la qualità della messe, sottolineando l’attitudine della Mostra al rischio e alla sorpresa, per evitare che diventi una banale sequela di anteprime stampa, di eventi che si esauriscono in una giornata.
Anche se poi, a ben guardare, solo in concorso sfilerà gente come Al Pacino, Holly Hunter, Michael Keaton, Edward Norton, Ethan Hawke, Naomi Watts, Viggo Mortensen, Emma Stone, Willem Defoe…
A noi che non abbiamo mai amato il Cencelli festivaliero, fa piacere la folta presenza statunitense (diversamente hollywoodiana) in concorso: dopo aver visto Joe l’anno scorso, ad esempio, siamo curiosi di vedere come David Gordon Green ha maneggiato il mestiere di Al Pacino, alle prese con un passato galeotto da cancellare (Manglehorn); Andrew Niccol è capace di tutto e Good Kill (nella foto in alto) parla di droni e militari pagati per uccidere con il joystick; poi ci sono Alejandro Gonzáles Iňárritu (un’incognita), Ramin Bahrani, il Pasolini di Abel Ferrara...
A quanto pare anche la pattuglia francese non è affatto male. Da Viggo Mortensen in versione maestro elementare, francese d’Algeria, ai tempi della guerra di liberazione (Loin des hommes di David Oelhoffen), al film di Alix Delaporte, che si era già fatta notare per Angèle et Tony, e che sembra abbia girato un film intenso e toccante, Le dernier coup de marteau (un ragazzino alla scoperta del padre sconosciuto, direttore d'orchestra).
Se ci aggiungiamo (finalmente!) il ritorno di Roy Andersson, l’approdo in concorso di Joshua Oppenheimer, uno Shinya Tsukamoto antimilitarista, la Russia contadina di Konchalovski, c’è da essere moderatamente ottimisti. Anche perché ci sono pure delle scoperte da fare: vedere ad esempio l’esordio del turco Kaan Müjdeci, il cui Sivas sembra sia uno dei pezzi forti del Concorso.
Sospendiamo il giudizio, invece, sulla selezione italiana, perché qui non ci si indovina mai, anche se Anime nere di Francesco Munzi (nella foto) promette molto bene (e se fosse il film della Mostra?) e Martone è sempre Martone. Chissà che immagine del Paese ne verrà fuori, tra il ritratto di Leopardi, che i vizi italici li conosceva molto bene, e quello estremo di Pasolini, tra l’Italia industriale raccontata da Ferrario e il patchwork di filmini fai da te messo insieme da Salvatores, tra la ‘ndrangheta messa in scena da Munzi e la nazione a pezzi evocata da Maresco.
Fuori concorso si fanno notare i nomi (e speriamo non solo quelli) di Peter Bogdanovich, Joe Dante e Im Kwon-taek, Amos Gitai e Ann Hui, James Franco alle prese con William Faulkner e Ulrich Seidl che esplora i seminterrati austriaci. Insomma, roba importante. Soprattutto il secondo capitolo di Nymphomaniac in versione hard.
Ma è Orizzonti che ci incuriosisce in modo particolare. Non solo perché abbiamo visto in un trailer Michel Houellebecq in completo da ciclista alla ricerca di un posto in cui uccidersi (Near Death Experience, nella foto in basso). Questo è il luogo in cui i selezionatori di Barbera hanno dimostrato di sbizzarrirsi in libertà: non per niente due anni fa era Orizzonti la sezione più interessante (mentre l’anno scorso i termini della questione si sono parzialmente invertiti).
Ci aspettiamo tante bizzarrie dall’escursione hollywoodiana e marxiana di Quentin Dupieux, la conferma del fatto che Ami Canaan Mann ci sa fare (Your Right Mind, nella foto in basso), la consueta opera gentile e intelligente di Hong Sang-soo, ma anche e soprattutto una massiccia dose di sorprese, dal film georgiano di Salome Alexi (si parla di prestiti, debiti, soldi e ancora soldi, fino alla rovina) all’azerbaigiano Nabat (storia di una donna in un villaggio in guerra), passando per l’indiano Court (viaggio da incubo nella giustizia di quel Paese). È qui che si misurerà non tanto il successo della Mostra, quanto la sua ragione di esistere.
Perché ormai è chiaro che il panorama dei festival è completamente cambiato, che Venezia non può rincorrere Cannes sul fronte degli eventi e delle passerelle (perfino loro ormai hanno problemi a invogliare i “pezzi grossi”), che ci sono altre manifestazioni più duttili e utili al marketing dei film americani più attesi, e quindi si tratta di andare al di là della formula-vetrina o del programma-omnibus.
Bisogna cercare e scoprire, dare spazio a tutto quel cinema che non riesce più a farsi guardare e distribuire, avendo il coraggio di rinunciare all’aurea mediocritas dell’autore festivaliero col suo cinema “impegnato” standard, preferendo invece i film vitali, i registi che rischiano, le opere magari imperfette ma piene di energia, idee, spunti che ci permettano di capire-vedere meglio una realtà sempre più confusa.
E non dimentichiamo poi le proposte della Settimana della Critica (l’anno scorso era una buona rassegna), le Giornate degli Autori (Cantet, De La Iglesia, Honoré, Kim Ki-duk…), il notevole repertorio di classici (quante cose da rivedere!), la serie HBO Olive Kitteridge (Frances McDormand!), il nuovo omaggio all’animatore Simone Massi, con il suo ultimo film, L’attesa del Maggio, e un documentario a lui dedicato, Animata resistenza (ho avuto la fortuna di vederli nascere e crescere, sono un po’ di parte, ma vi assicuro che si tratta di opere notevolissime).
L’anno scorso la scommessa è stata vinta, anche se certi commentatori di quotidiani e tv lamentavano le opere “estreme” e la selezione contraddittoria e sbilanciata, cosa che a noi era sembrata un pregio. Avevamo chiuso il festival scrivendo così: «Ci affascina questo confondersi di generi e categorie, l’emergere di ibridi e oggetti non identificati, ma anche la contiguità tra “classico” e “moderno”, omaggio al passato e ricerca di un futuro possibile. Ci piacciono gli estremi del cinema rigoroso e puro a costo di risultare ermetico e quello furbo che sa di esserlo, e gioca con la propria furbizia, facendone un elemento del piacere del cinema».
Se la Mostra proseguirà in questa direzione, noi saremo qui ad applaudire.