È assai raro, persino ai festival, vedere film complessi, ricchi e articolati come Chuangru zhe.
La pellicola di Wang Xiaoshuai è infatti un’opera bizzarra, cangiante, mai riconducibile a un nucleo tematico e narrativo preciso e per certi versi indomabile. Un’opera nella quale il racconto non aderisce a niente di determinato e, almeno inizialmente, non fornisce allo spettatore appiglio alcuno per comprendere materia e focus della narrazione.
La storia dell’anziana Deng, vedova e madre di due figli adulti – dei quali è invadente e indiscreta protettrice – nella Pechino di oggi, sembra iniziare come la rappresentazione misurata e pudica della solitudine e della vecchiaia, ma lentamente si trasforma in qualcosa di completamente diverso. L’impianto realista che domina tutta la prima parte lascia il passo a un incedere fantastico, e quasi soprannaturale, all’interno del quale i fantasmi abitano e condividono gli spazi con i personaggi in carne e ossa.
Deng, devota al marito defunto con il quale colloquia ogni sera a cena, comincia a essere perseguitata da misteriose telefonate e da atti vandalici a cui non sa dare spiegazione. È a questo punto che il film, abbandonando la pista dell’illustrazione e dell’indagine sociale, abbraccia modalità di racconto che puntano a un impianto più aderente ai generi: non soltanto il fantastico, come si diceva, ma anche il thriller.
Dando luogo in tal modo ad atmosfere che aiutano il regista a dipingere un ritratto estremamente poliedrico non soltanto dei personaggi, e specialmente della protagonista, ma anche di tutto quello che loro gira intorno. Segnatamente della Cina stessa e della sua Storia, quella con la esse maiuscola che, nel film, è la questione preminente e a cui tutte le altre storie riconducono.
Lentamente infatti, emergono i particolari della vita di Deng – ex attivista politica tornata a vivere a Pechino dopo essere stata forzatamente costretta a emigrare fra le montagne – e lo choc che essa ha condiviso con altri milioni di persone quando il Partito comunista, durante la Rivoluzione Culturale, costrinse un numero ingente di cinesi a vivere nelle zone rurali del paese.
Uno choc che appartiene però alla storia della Cina di oggi molto più di quanto sembri a prima vista, evidenzia Wang – che di argomenti come questi ci ha parlato in tanto del suo cinema (in special modo in Shangai Dreams, 2005) – non smettendo di interrogarsi sul significato sociale e culturale del passato del proprio paese per le vite delle donne e degli uomini della Cina odierna.
Attento a fornire interrogativi, più che a dare risposte, il regista non solo conduce il film per vie inaspettate, come si diceva, ma eleva anche ogni accenno visivo e ogni indugio estetico del proprio racconto di una potente carica evocativa. Girando quasi solo in interni ove soffoca le esistenze dei propri personaggi, Wang utilizza gli spazi come luoghi della metafora, del pensiero e della memoria. Le case di Pechino abitate e ricche di oggetti tecnologici e moderni (rappresentati icasticamente dalla vasca automatica per il pediluvio di Deng), si scontra con i ricordi (forse gli incubi) delle abitazioni del paesino di montagna, ormai disabitate: scheletri di un passato troppo ingombrante e manifesto per essere dimenticato.
E il finale del film, ambientato proprio in uno di questi casermoni fatiscenti – forse un po’ troppo scollegato e disordinato rispetto a tutto il resto – è tuttavia capace di dare il senso a ciò che il regista ha fino a quel momento messo in campo. Al di là di una finestra aperta verso il cielo, oltre un fuori campo tragico del quale intuiamo appena la materialità, vediamo per la prima volta un campo lungo in cui l’occhio può perdersi senza che qualcosa interrompa questa fuga. Senza che lo sguardo venga intralciato da elementi artificiali e che gli ostacoli del progresso colorino il paesaggio di tinte ancora più fosche.