Ambientato in un paese africano non meglio precisato, che potrebbe rimandare a una pluralità di conflitti avvenuti nel continente nel corso degli ultimi decenni, Beasts of No Nation racconta del viaggio all’inferno di un ragazzino: la sua famiglia viene sterminata (si salva, forse, solo la madre) e lui – mentre si rifugia nel bush – viene forzatamente arruolato in un esercito irregolare fatto in larga parte di bambini. Da qui in poi sarà costretto a vedere e a compiere le peggiori atrocità.
Di fronte all'argomento del film di Cary Fukunaga la domanda che ci si pone è se sia possibile portare sullo schermo un’esperienza – quella dei bambini soldato nei conflitti africani – che sembra eccedere i limiti del rappresentabile e del pensabile. Per farlo occorreva probabilmente trovare una forma inedita e capace di rendere lo sconvolgimento di tali esperienze, come aveva fatto il Joshua Oppenheimer di The Act of Killing, prendendosi grandi rischi. L’approccio di Fukunaga invece è molto più convenzionale: la musica sparata a tutto volume e l’alterazione dei colori sono i mezzi con cui dovremmo entrare nella mente del protagonista e percepire la non ordinarietà delle sue esperienze.
L’inizio – che racconta la vita relativamente serena in una zona cuscinetto risparmiata dal conflitto e che, con la gag del televisore, introduce il leitmotiv dello schermo che si frappone tra noi e la realtà (motivo che ritorna in seguito, quando ad esempio la macchina da presa si macchia di sangue) – lasciava presagire una maggiore sottigliezza. Il prosieguo, invece, è girato con solidissimo mestiere, a tratti rivela qualità di scrittura, ma nel complesso non può non lasciare l'impressione di didascalicità (tutto è sempre troppo detto e spiegato: “potrò mai tornare bambino?” si chiede, in voice over, il protagonista) e di retorica (i momenti commoventi in cui i due bambini “protetti” dal comandante si aiutano a vicenda).
È interessante aver visto questo film nella stessa sera in cui a Venezia è stato presentato anche il documentario Winter on fire di Evgeny Afineevsky, sulle manifestazioni ucraine contro Janukovyč del 2014: anche questo, come il film di Fukunaga, esce col marchio Netflix. Se questi sono i segnali di una nascente “estetica Netflix” va detto che non appaiono molto positivi: sembrano indicare piuttosto la strada di un cinema effettistico e fondamentalmente manipolatorio. Si può fare un documentario su questo argomento senza nemmeno dire che il paese ex-sovietico presenta al suo interno una consistente minoranza russofona e che quindi i manifestanti di Piazza Maidan erano una parte del “Popolo”?.