Sono i film che fanno il festival o è il festival che “fa” i film?
Una kermesse come quella veneziana vive dei grandi titoli che ci sono/non ci sono, capaci di ingolosire il pubblico e provocare titoli di giornali, oppure delle opere che può far emergere, che ha il potere di mettere sotto i riflettori, che può aiutare a farsi (ri)conoscere nel circuito culturale e quello commerciale?
La questione sta tutta qui. Nelle trasformazioni in atto negli ultimi anni e negli equilibri che sono cambiati (mettendo in difficoltà anche Cannes, “il festival” per eccellenza, nonostante abbia un mercato che al Lido non è mai esistito), rendendo difficile conciliare le due attitudini.
Il programma di Venezia 2015 esalta la questione come non mai: sembra rompere definitivamente con l’abitudine di giudicare i festival in base ai grande nomi che sono riusciti ad accaparrarsi, a prescindere dal valore dei film (come fare di necessità virtù); fa i conti con il potere di attrazione di Toronto e New York, con il fascino crescente del Certain Regard di Cannes, proponendo una scommessa che sta tutta nella miriade di nomi nuovi, semi-sconosciuti, già-incontrati-ma-di-rado, inseriti sia in Concorso che, soprattutto, in Orizzonti.
Il cambiamento (in atto ormai da anni) è rischioso, perché un grande festival si nutre di “attesa dell’evento”, ha bisogno della grancassa mediatica, della voglia di vedere questo o quel film suscitata negli appassionati (ormai bulimici, i festival sono un "di più"). Però è anche affascinante. Soprattutto se pensiamo alla qualità e alla varietà delle ultime edizioni, che si è imposta nonostante i dubbi iniziali.
Tutti vorremmo che il prestigio di Venezia – e la sua utilità-praticabilità per chi fa marketing cine-industriale – fosse in grado di attrarre le ultime produzioni di Ridley Scott, Robert Zemeckis o Guillermo Del Toro. Ma non è più così, non sarà mai più così. E allora occorre ragionare sulla funzione di un festival come questo. Sull’opportunità di utilizzare il suo prestigio come occasione di ricerca e strumento di promozione, al servizio del (buon) cinema e non viceversa. Una scommessa che va giudicata solo alla fine, perché la questione non sta più nel fascino della “vetrina”, ma nella sostanza di ciò che offre il “negozio”.
Oltretutto, visto che il direttore artistico Alberto Barbera non è certo un novizio, l’aspetto “mediatico” sarà opportunamente garantito dal parterre di stelle che dovrebbero arrivare sul tappeto rosso, oltre che dall’invenzione del “Cinema nel Giardino”, che vedrà protagonisti personaggi come Vasco Rossi, Tornatore, Amelio, Pif, Richard Flanagan e Michael Cunningham…
Quanto a ciò che ci interessa di più, i film, il cartellone ha i suoi approdi sicuri. Se vogliamo giocare il gioco del “cosa mi piacerebbe vedere”, i titoli di certo non mancano: ecco allora i film di Sokurov e Tsai Ming-liang, i doc fuori concorso di Wiseman e Maresco, uno come Baumbach che racconta uno come De Palma, l’esordio di Laurie Anderson, Kaufman che si dà all’animazione, Bellocchio e il ritorno di Gaudino, Trapero e Skolimowski, la fantascienza indie di Drake Doremus, Rabin raccontato da Amos Gitai, Zhao Liang, il mondo della lotta libera secondo Ripstein, i cast d’oro messi insieme da Thomas McCarthy, Scott Cooper e Baltasar Kormakur, la ricca messe sudamericana…
Il menu è in larga parte misterioso, ma di sicuro i sapori forti non mancano. Speriamo ci saranno anche piatti prelibati.