Tsai Ming-liang, dopo Stray Dogs, prosegue inarrestabile a esplorare uno spazio filmico che, svincolato dalle pratiche canoniche dell’esercizio cinematografico (da Journey to the West in avanti il regista si è impegnato unicamente in progetti volutamente estranei alle classiche dinamiche produttive e distributive), si presenta come un territorio ignoto, e in quanto tale da inventare attraverso un ripensamento e una conseguente riscrittura dei codici (progettuali, compositivi…). In questo processo di palingenesi della visione, che ogni volta pone lo spettatore di fronte ad un’immagine pensata per essere vista come se fosse la prima volta, il regista non poteva mancare di confrontarsi con le potenzialità inesplorate offerte dalla Virtual Reality, cosa che infatti succede con The Deserted.
Pur reiventandosi il cinema di Tsai sa procedere mantenendo una granitica continuità stilistica; in quest’ultimo progetto, oltre a ritrovare il suo attore di sempre, Lee Kang-sheng (i due sono legati da un rapporto che trascende qualsiasi possibile definizione, lungo vent'anni, trascorso fianco a fianco, capace di creare un'opera, probabilmente, irripetibile), si rintracciano chiari rimandi del suo percorso filmografico. Si può infatti pensare a The Deserted come a un ambiente (la visione procede tra l’interno e l’esterno di una casa affacciata sulla foresta che non può non ricordare quella di Afternoon) dove ogni spazio è abitato da momenti precedenti del suo cinema (al di là del film del 2015 anche echi provenienti da The Hole, I Don't Want to Sleep Alone, il già citato Stray Dogs,…).
L’immersività concessa dalla VR permette a Tsai di sfrondare completamente la componente tramica (del resto il regista non è mai stato interessato a svelare l’interiorità dei suoi personaggi preferendo rimanere sulla soglia delle loro esistenze fisiche) e di elevare a potenza certe marche stilistiche che da sempre caratterizzano il suo cinema; su tutte l’impiego della profondità di campo, ancora una volta applicata a un piano fisso che però qui raggiunge un’estensione di 360° che lo spettatore è chiamato a perlustrare (perdendocisi) girando su sé stesso. Quella qui ottenuta è un’immagine che cancella il confine tra campo e fuori campo, tra quello che accade dentro il quadro e quello che è escluso. La casa, di cui s’è detto, proprio per le caratteristiche della tecnologia impiegata, è, come forse mai prima d’ora, luogo aporetico per eccellenza, dove la divisione tra consesso umano e resto del mondo è labile, confusa; in cui il primo partecipa, essendone parte, alle dinamiche che scuotono il secondo e viceversa. Tra cultura e natura si stabilisce una consonanza di ritmi e lo spettatore non può far altro che lasciarsi trascinare in questa deriva.