È impossibile riflettere sull’ultimo film di Oliver Stone senza confrontarlo con il documentario di Laura Poitras Citizenfour, vincitore agli Oscar nel 2015. Innanzitutto perché il regista stesso si mostra consapevole dell’importanza di questo documentario nella vicenda stessa che intende raccontare, al punto da utilizzare come cornice per il suo racconto la ricostruzione finzionale del making dell’intervista di Poitras. Fatto questo, però, Stone sceglie la strada opposta: invece di affidarsi al racconto e all’opinione del whistleblower, sceglie di mettere in scena una narrativizzazione dei fatti, utilizzando tecniche narrative e registiche tipiche del thriller e ottenendo di fatto un film che non aggiunge niente alla figura di Snowden, ma che offre un’occasione per riflettere sulla salute dei meccanismi di finzione a servizio del cinema che si propone come impegnato.
È un fatto che ci troviamo in un’epoca di pervasività capillare del meccanismo narrativo nell’esperienza di fruizione. Nell’intrattenimento le tecniche narrative classico-hollywoodiane (ovviamente rivedute, corrette e aggiornate, specie in termini di ritmo) sembrano funzionare ancora. Al tempo stesso, la stessa informazione è sempre più spettacolarizzata, romanzata, assume sempre più spesso i caratteri dell’infotainment e del reportage anzitutto narrativo. La scelta di Stone, quindi, di offrire un ritratto finzionale di quello che sceglie come suo protagonista è perciò quantomeno comprensibile. Eppure, qualcosa va storto, il biopic non funziona, è lento, didascalico, già visto.
Il problema risiede proprio nell’incapacità di Stone di affrancarsi del tutto dalla pretesa di realismo, nella mancanza di coraggio nel difendere la sua decisione di fare un film di finzione. Questo è evidente anzitutto nella costruzione del personaggio: da un lato Stone si sforza di ricreare il vero Snowden, costringendo Gordon-Levitt a una recitazione misuratissima e quasi inespressiva, di non snaturarne i tratti caratteriali per farne un eroe un po’ più appealing cinematograficamente; tuttavia, servendosi proprio della personalità “robotica” di Snowden (su cui spesso scherza lui stesso), finisce per cristallizzarlo nella figura stereotipata del nerd – cubo di Rubik sempre in mano, abilità informatiche sopra la media, capacità di socializzazione prossime allo zero. Lo stesso avviene nella rappresentazione delle tecnologie di sorveglianza: ad eccezione della scena in cui l’ex mentore Rhys Ifans rivela a Snowden che anche la sua compagna è tenuta sotto osservazione, lo script si attiene con troppa fedeltà al disvelamento progressivo di quelle che non sono più rivelazioni shock per lo spettatore mediamente informato, non drammatizza abbastanza un racconto in cui “la realtà supera l’immaginazione”, in cui la Storia è più inquietante di una distopia.
Per non parlare della relazione di Snowden con la compagna Lindsay Mills: curiosamente tutto appare banale e fasullo, o meglio, tanto banale, quotidiano e ovvio da farsi forma pura, ideale, proprio come il personaggio bidimensionale interpretato da Shailene Woodley, fidanzata fedele e “coscienza civile” del proprio compagno. Stone utilizza il parallelo tra la relazione sentimentale e la maturazione di rivelare al mondo inquietanti scoperte per riflettere sul tema della fiducia. A fronte della fiducia cieca di Lindsay, che segue Edward nei suoi spostamenti di lavoro pur senza sapere di cosa si occupi e gli sta vicino anche nei momenti di paranoia, Edward inizia al contrario a farsi sempre più domande sulla segretezza a cui è costretto: sviluppa la convinzione di non potersi più fidare del proprio governo, impara a dubitare dell’insindacabilità delle scelte dei suoi superiori, e soprattutto si rifiuta di essere solo una pedina nel panopticon governativo.
Ma questo conflitto resta puramente razionale, scevro di implicazioni che vadano a toccare il coinvolgimento emotivo e individuale del personaggio, e il film appare ancora più freddo e autistico del suo protagonista. La “conversione” di Snowden, da militare che serve il proprio Paese a nemico pubblico è salutata da Stone con granitica ammirazione, senza alcuna ambivalenza. Se lo scopo della narrazione e della narrativizzazione è quello di creare una possibile identificazione empatica con il personaggio, il film di Stone fallisce paradossalmente proprio in questo, offrendo quello che sembra un saggio di filosofia morale analitica. Emerge quindi soltanto la volontà di consacrare l’ennesimo eroe alla patria, un eroe contro, certo, ma pur sempre guidato esclusivamente dalla volontà di “fare la cosa giusta”, in una retorica tutta americana che non vede nessuna necessità nell’opposizione al potere ma soltanto la scelta individuale, libera e razionale di un’anima bella.
Se si torna al confronto iniziale con il documentario di Poitras, si comprende la differenza fra i due film già a partire dal titolo. Mentre Poitras intende parlare dall’esperienza parziale e personale di Snowden, come dichiara la scelta del titolo che riprende il nome in codice contenuto nelle mail criptate da cui è partita l’operazione di leaking, Stone intende invece offrire un ritratto fittizio che ambisca a tratteggiare, però, un gesto eroico inequivocabile. Ed è proprio questa pretesa di obiettività dogmatica a far sì che il suo film assuma toni apologetici capaci di superare a destra quelli rivolti da Clint Eastwood all’American Sniper Chris Kyle…