INTERVISTE

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Albert Serra: il tempo e le persone

Albert Serra è l’artista invitato dall’istituto Ramon Llull a Venezia, in occasione della 56. Esposizione d’Arte. Nel Padiglione della Catalogna, curato da Chus Martínez, presenta Singularity, una video-istallazione composta da 5 schermi in cui frammenti di un film di circa 12 ore sembrano dialogare tra loro sul momento di passaggio tra un’umanità che sta diventando macchinica e delle macchine che potrebbero, alla fine, umanizzarsi.
L’incontro con Serra, per l’inaugurazione di Singularity, è stato anche l’occasione per parlare del suo cinema e dei suoi lavori precedenti.

In Sigularity c’è una transizione tra due epoche, tra due momenti dell’umanità.
Sì, il progetto che ho scelto ha a che fare con questo tempo, col termine “singolarità”, col ruolo che le macchine avranno nel futuro. Ha a che fare con questo cambiamento, con la perdita della centralità del corpo, che a me interessa molto, poiché i miei film precedenti erano sempre focalizzati sul filmare le persone, i loro corpi, che è una vera e propria ossessione per me, e ora mi sono detto “va bene, andiamo avanti” e allora ho cercato di creare della finzione partendo dal nulla, di creare un tempo reale, e credo che qui ci sia molta più “performance”, o qualcosa di molto più vicino alla performance, rispetto a tutto quello che ho fatto prima.  La mia sfida era di fare della finzione partendo da una materia, da un soggetto che, ovvio, era questo. E allora mi sono detto: perché non i minatori, perché non la prostituzione, il cui soggetto è il corpo, per me così importante, l’oro, la ricchezza, la corruzione, lo sfruttamento (in Singularity tutti i personaggi sono implicati in un lavoro fisico e sono ossessionati non tanto dal denaro, semplice “carta nominale”, quanto dall’oro, dunque da ciò che ha un valore intrinseco e che rende concreto il valore delle banconote, ndr), poiché in 12 ore puoi affrontare lo sfruttamento e la prostituzione del corpo e del lavoro e la volontà di ottenere soldi facilmente, la competizione tra i proprietari, in varie declinazioni. E poi, oltre a questo lavoro più approfondito sulla performance, mi è piaciuto concentrarmi su certi dettagli, più legati al mio classico universo cinematografico, alle mie immaginazioni.
Forse c’è un approccio meno concettuale, rispetto ai miei lavori precedenti. E questa forse è la differenza principale. Ci sono le immagini in movimento, nella loro interezza… La possibilità di creare un nuovo mondo con le immagini. Questo può essere indisponibile, ma è reale e organico. E questo è il mio piacere, questo tipo di creazione. La mia materia sono le persone, lì sta il mio interesse principale. Le persone e il tempo. Mentre filmo ma anche nel montaggio, nel lavoro di postproduzione.  Per dOCUMENTA, per esempio, avevo fatto questo lavoro un po’ megalomane, 101 ore di filmato (The Three Little Pigs), mescolando Hitler, Fassbinder e Goethe: per più di tre mesi ogni giorno avevo filmato un’ora. E per me questo è il punto: il tempo e le persone. A volte persone a me vicine, a volte persone sconosciute, cerco di trovare una mediazione, di moderare quello che si viene a creare anche con diversi materiali, da quelli più comuni o banali ai classici elementi: l’aria, l’acqua…

Anche in Història de la meva mort (2013) c’è un passaggio tra due epoche, l’Illuminismo e il Romanticismo.
Sì, certo, è sempre questo. Fin dall’inizio. Questa dicotomia tra due soggetti, la dialettica che va a crearsi. Forse in Singularity ciò si crea tra diversi fattori: l’oro, il corpo, lo sfruttamento, la ricchezza economica, ma dall’altra parte c’è la ricchezza spirituale. Dunque c’è sempre una dicotomia. Per me il soggetto, la storia, arriva sempre dopo. I personaggi sono la prima cosa a cui penso e che mi interessa. Il resto scaturisce da lì. Non mi interessa l’intreccio. Mi interessano i personaggi che nascono di fronte a me, in tempo reale. E poi cerco di violare questi personaggi, in un certo senso. Quello è il mio punto di partenza. Il racconto viene creato successivamente attorno a loro. E da lì inizio a manipolare. Manipolo un po’ il tempo reale e anche il resto: i sentimenti, le emozioni. Comunque i personaggi non hanno bisogno di sapere nulla. Gli attori che li interpretano non sono attori professionisti. E sono già i loro personaggi prima di cominciare a girare. Lo sono in un certo senso col mio aiuto, ma anche senza. Sono nati così, di fronte a me. E con loro puoi iniziare subito a girare. E qui il punto sembrerebbe di nuovo la performance, invece no. Quello che alla fine scorrerà sullo schermo non è la performance. Alla performance io devo aggiungere ancora qualcosa, un piccolo tocco.

Vedendo i tuoi film, Història de la meva mort, certo, ma anche Honor de cavalleria (2006) e El cant dels ocells (2008), mi viene sempre da pensare che i tuoi personaggi siano figure scarnificate, pedine nelle mani della Storia.
Sì, esattamente. Forse perché sono legati a questa idea di opacità. Non sono mai simboli. Quando i personaggi si creano davanti a me, prima di girare, sono sempre opachi. E continuano poi a mantenere questa assenza di trasparenza. Non devono simboleggiare qualcosa, rappresentare qualcosa. Per me loro sono completamente opachi, come un muro. Non come una porta. Non c’è simbologia, non c’è un messaggio. Ci sono molti altri registi che lavorano o hanno lavorato su questo. Andy Warhol, per esempio, col suo lavoro sul materiale umano, su un materiale umano opaco, appunto. O Hans-Jürgen Syberberg col suo film assai complesso su Hitler e il passato della Germania (Hitler, ein Film aus Deutschland, 1977 - Hitler: A Film from Germany o Our Hitler). Non c’è simbologia, non c’è una lezione. Ci sono le immagini, c’è del materiale impenetrabile. Ci sono dei corpi, magari corpi di persone amiche. Una scenografia vera o talvolta finta, ma comunque opaca. Ti può piacere, o puoi usarla, ma non sai bene perché. E tutti questi materiali sono allo stesso livello, hanno la medesima importanza. Non c’è una gerarchia. All’inizio non c’è qualcuno di questi materiali, proprio perché poco chiari, poco limpidi, che abbia una maggior importanza rispetto agli altri. Partono tutti dallo stesso livello. Poi, certo, man mano che si va avanti le cose cambiano e anche l’importanza dei vari elementi cambia. Ma non all’inizio. E dunque, prima di cominciare, io non so ancora cosa andrò a sacrificare o a mantenere.

Nei tuoi film mi verrebbe da dire che c’è un dialogo costante tra gli elementi in gioco, ma anche un dialogo costante tra le tue varie opere. Ne El senyor ha fet en mi meravelles​ (2011), per esempio, c’è un rapporto dialettico con Honor de cavalleria, e però è una “lettera filmata” per Lisandro Alonso…
Ma innanzitutto è un dialogo con me stesso, perché è la descrizione di questa specie di utopia artistica. Un’utopia fatta di creazione artistica e di persone che incontri e entrano in un gruppo di lavoro. E poi bisogna vedere se questa chimera può realizzarsi ma soprattutto se può durare. Quanto il tempo può interferire in questo ideale. E ciò è sempre implicito nel mio lavoro, ma anche in moltissime opere d’arte. Ma in El senyor ha fet en mi meravelles è esplicito. E è esplicita anche la volontà. Il progetto di cui faceva parte (l’esposizione Totes les cartes, per il Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona) vedeva altri cineasti “spedirsi” molte lettere, io e Alonso, invece, abbiamo deciso di inviare una sola lettera. Infatti la mia lettera era indirizzata a me stesso, non a lui. Io non cercavo un dialogo con lui ma con me. E per lui è stata la stessa cosa. Non cercava un dialogo con me. È una lettera personale, legata alla mitologia personale. Io ho usato i miei vecchi attori e lui ha usato a sua volta i suoi vecchi attori (le “lettera filmata” di Alonso, Sin título (Carta para Serra), 2011, ha nuovamente come protagonista Misael Saavedra, già presente in La libertad, 2001, e Fantasma, 2006). Noi non eravamo interessati a comunicare. E questa è un’altra caratteristica, credo, dei miei lavori: l’incomunicabilità. Nel senso, io non voglio comunicare niente e non credo che in un’opera la parte legata alla “comunicazione” sia interessante. E lo stesso vale per ciò che riguarda la ricezione del mio lavoro: non mi importa. Io preferisco che la comunicazione rimanga, anch’essa, opaca.

Tornando a Singularity mi viene da pensare che tutti i personaggi sono in fondo delle macchine e di conseguenza mi torna in mente il tuo Casanova di Història de la meva mort: lui è una macchina, una macchina “sadianamente in piena luce”.
Sì, esattamente! Casanova è una macchina a tutti gli effetti. E ci sono le macchine per pensare dalla Germania, le macchine da scrivere dalla Francia e quelle per fornicare dall’Italia. E queste cose se vuoi sono simboliche, ma provengono dal testo di Casanova, Histoire de ma vie. E da lì risulta chiaro quanto lui sia vicino ai congegni e alla macchine. È in perenne movimento. Senza fermarsi e senza sentirsi mai stanco. E penso che, in un certo strano modo, il film rifletta questo, cioè il movimento perenne di quest’uomo, che cerca di fare tutte le esperienze possibili e di assorbire tutto. Casanova è mosso dal bisogno di fare esperienze multiple allo stesso tempo, come un dispositivo veloce che non si stanca mai. E questa mi sembra una splendida metafora. Io non credo che il personaggio di Casanova sia immorale, semplicemente è amorale, come lo è una macchina. Non prende mai, ma dà: dà parole, pensieri, conversazioni, piacere. Ma per sé non prende mai nulla. E anche in Singularity i personaggi, che sono tutti lavoratori, sono macchine. E sono in stretta relazione con dispositivi tecnologici veri e propri. Ovviamente c’è la tematica di come questi congegni sostituiranno il lavoro dell’essere umano, che è una tematica che deriva dalla Rivoluzione industriale, e nel momento in cui le macchine avranno preso definitivamente il posto dell’uomo, alla fine del film, allora forse i droni arriveranno a innamorarsi di un essere umano. Smetteranno di controllare le persone e si innamoreranno di loro. Un drone guarderà negli occhi una donna e si innamorerà di lei.

I tuoi personaggi sono sempre in un rapporto dialettico. Creano due polarità e da questa tensione viene evocato altro…
Sì, è così. Per esempio in Història de le meva mort mi piaceva mettere in contrapposizione il piacere di Casanova, così razionale, macchinico, questo dare costante, con quello di Dracula, così oscuro, possessivo, violento. Questo è quello che mi piace. Inoltre devo dire che sono molto orgoglioso dei miei attori e del lavoro che hanno fatto.

A proposito di Casanova tu prima parlavi di movimento perenne. I tuoi personaggi intraprendono anche un viaggio, talvolta, come nel caso de El cant dels ocells, almeno inizialmente sembra un viaggio quasi senza meta e senza fine, un viaggio nel nulla.
Infatti questa era la mia idea. Nella Bibbia la storia dei tre Re Magi è ridotta a poche righe dagli Evangelisti. Loro arrivano, portano i doni al Bambinello e se ne vanno. Non c’è alcuna speculazione su di loro, sulle loro origini, sulla loro storia. Di conseguenza per me è stato quasi ovvio fare un film su qualcosa di cui non si sa praticamente niente. Noi abbiamo una qualche conoscenza di loro come figure iconiche, grazie alla pittura e alla Chiesa, eppure sono i primi credenti della Storia, a parte Giovanni Battista. Quindi essendo i primi a credere in Gesù, cosa stanno adorando visto che non se ne sapeva nulla? Perché il loro Cristianesimo non era quello che conosciamo oggi, e quindi cosa stavano venerando? Un bambino, semplicemente, e senza ragioni comprensibili. E dunque per me l’idea interessante era questo loro turbamento privo di spiegazioni che li portava a fare un viaggio, in un certo senso, verso l’ignoto, perché loro avevano capito qualcosa che nessun’altro aveva capito. Poi diventa qualcosa di molto importante, ma all’inizio è niente.

In fondo è anche il rapporto che l’artista ha con l’arte.
Certo, è proprio questo, questa utopia, che in fondo è l’utopia di Don Chisciotte, ma anche l’utopia di Casanova o di Dracula, e dei Re Magi, questo loro andare fino alla fine, questo dirigersi verso qualcosa e arrivare fino in fondo. E in Singularity questa ricerca dell’oro, in un certo senso, è la stessa cosa. È un’utopia portata fino in fondo, fino alla fine. Così come il momento profetico in cui il corpo si evolve in qualcos’altro. E tra questi frammenti proiettati nei cinque schermi puoi trovare un mistero, cosa è vero, cosa è falso, dove stanno andando queste persone, in questi tempi. Questo secondo me è interessante e su questo mi piaceva lavorare.