INTERVISTE

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Amalric a cuore aperto

Mathieu Amalric è stato tra i protagonisti di Incroci di civiltà, Festival Internazionale di Letteratura a Venezia, che si è tenuto tra il 25 e il 28 marzo 2015, dove ha presentato Le Stade de Wimbledon (2001), tuttora inedito in Italia, tratto dall’omonimo romanzo di Daniele Del Giudice. L’intervista che segue è stata l’occasione per parlare del suo cinema, del suo lavoro come regista e come attore, del suo rapporto con la pagina scritta e con la luce. 

La prima cosa che mi è venuta in mente, guardando "Le Stade de Wimbledon", è un verso di Cesare Pavese che chiude "Un ricordo", una poesia che parla di una donna un po’ misteriosa, dalla sensualità enigmatica: “Sorride da sola / il sorriso più ambiguo camminando per strada”1. E in fondo la protagonista del tuo film fa una specie di indagine su un autore che non scrive, ma al tempo stesso fa un’indagine su se stessa, su qualcosa di lei che rimane nascosto
È molto bello… È vero, soprattutto a Londra, sorride molto Jeanne (Balibar). Ovviamente io non avevo pensato assolutamente a questo, non conoscevo questa poesia. A ogni modo c’era un percorso, complicato dalle riprese… La maniera in cui abbiamo girato l’ultima scena, per esempio… Non è l’ultima scena del film, ma l’ultima che abbiamo girato, quella a casa di Ljuba (Ljuba Blumenthal interpretata da Esther Gorintin). L’abbiamo girata in Bretagna, nella casa dei nonni di Jeanne. È talmente costoso girare in Inghilterra, che non potevamo rimanere molto tempo laggiù.
Mi ricordo che subito dopo l’inizio mi sono detto che avrebbe dovuto essere chiaro che tutto quello che lei aveva vissuto, che avevamo visto e che ci aspettavamo di sapere fin dall’inizio - perché vengono dette delle cose che successivamente si ricorderanno in maniera differente -, che tutta questa materia, insomma, sarebbe stata trasformata attraverso l’immaginazione, che molto sarebbe stato inventato. Ebbene, ecco il testo. Tutto quello che ha vissuto l’ha messo nel testo che invia a questa donna. Ed è un po’ diverso dal romanzo, perché col romanzo tu hai un libro tra le mani, dunque il risultato dell’indagine è il libro che tu tieni tra le mani, ma nel cinema non può essere così, bisognava trovare un modo che funzionasse, che potesse essere condiviso chiaramente, qualche frase che evocasse…
Quello che mi interessava di più era ciò che aveva a che fare col poliziesco, con l’inchiesta, in modo tale che la gente avesse il piacere di carpire delle informazioni. In fondo quello che mi diverte nel fare un film, nella sua “fabbricazione”, sono i problemi più grossolani. Mentre giri un film sai che ci sono cose che fanno parte di una specie di sottogenere - quel sole, questa donna che fa un’inchiesta su se stessa - ma può essere che tu possa esprimerle in un altro modo. Ti dici: beh, sarebbe bello che lei passasse di fronte a un negozio di chiavi, allora guardi le chiavi, qualcuno potrebbe pensare ma perché le chiavi? ah beh sì, le chiavi, dunque lei sta cercando qualcosa… Ecco, sembrano sciocchezze, ma girando un film pensi a delle piccole cose così. È per questo, infatti, che c’è un momento, verso la fine, lavorando al montaggio, in cui tu vedi il film, dopo i tagli di alcuni dettagli, del lavoro, del rimpianto anche, e trovi qualcosa, se questo ovviamente funziona, che può darti la sensazione di essere uno spettatore. Ed è in fondo tutto ciò che cerchi quando fai il film. Ti dici, ecco questo fa pensare a questo o a quello…

Tu l’hai scoperto dopo, quindi
Nel montaggio, ho avuto una proiezione con François (Gédigir), il montatore del film. E quando abbiamo girato il film, abbiamo montato tra le varie sessioni di riprese. E questo è un bene. Abbiamo iniziato a girare in inverno, quando lei ha i capelli corti. Abbiamo finito con la primavera. No, aspetta, con l’autunno, perché in effetti nelle prime sequenze che vedi (autunnali) lei ha il volto più marcato. Mentre in inverno ha una luce diversa, il viso più rilassato, col cappotto bianco, sì, c’è una luce… come qualcosa che si va ad aprire
Comunque, al di là di tutto, mi ero detto, sì, è un film poliziesco, sì, è un film sui “vampiri” (lei prende e apprende qualcosa attraverso tutti gli incontri che fa, come se succhiasse la linfa, il sangue per nutrirsene), e lo dico consapevolmente, ho pensato anche di farlo in contrapposizione al fatto stesso di poter smettere di fare qualcosa. Ci sono persone che continuano a fare delle cose e altre che poi smettono. C’è un momento, si arriva a un’età, e degli amici hanno smesso di fare film. Degli amici che avevano iniziato a fare dei film in Super8 e poi hanno lasciato perdere. Dunque rimani solo a continuare e io ho pensato a loro, a gente assai dotata che però aveva smesso di fare film.
È per tutto questo che tu poi ti ritrovi dentro a qualcosa che non può essere o diventare altro che un film. Perché Mange ta soupe (1997) mi aveva dato l’impressione che potesse essere più vicino al teatro, rispetto a qualcosa più propriamente cinematografico. Sì, c’era ovviamente qualcosa anche lì, non era tutto ostentato, ma insomma… Mentre in questo caso c’è una donna, una cornice, della musica, e non potevi fare altro che un film.

Perché c’è qualcosa che viene evocato
Sì, esattamente. E lì è lo spettatore che, appunto, deve trovare qualcosa.

Guardando i tuoi film rimango sempre molto impressionata dall’uso che fai della luce. "Le Stade de Wimbledon" è, in fondo, una donna nella luce, la storia di una donna e della luce che la illumina, cambia la luce e cambia anche lei; in "Tournée" (2010) nella parte finale, all’interno dell’albergo vuoto, c’è una luce magnifica, di sospensione; in "La chambre bleue" (2014) tutta la scena della spiaggia, a Les Sables-d'Olonne, è impressionante, perché il protagonista sembra traumatizzato, è come se vedesse la luce per la prima volta, come se venisse addirittura ferito dalla luce: in un certo senso, dopo l’incontro con l’amante, ha scoperto i cinque sensi…
Sì, è vero. Ma sai, è sempre difficile, è una cosa che non dici o non pensi mai, tra te e te, durante la lavorazione del film. È un’intuizione che viene dopo. Sono convinto che piazzando un dispositivo giusto, giusto in rapporto all’intuizione che hai del film, qualcosa arriverà. Allora, per esempio, ne Le Stade de Wimbledon, tutte le scene in tram… Tu sai che la cosa più costosa è girare all’estero, allora per risparmiare avremmo potuto girare tutto in due giorni, nella stessa stagione (mentre il film è stato girato nelle diverse stagioni dell’anno). È stata solo l’intuizione che questo poteva rendere il film particolare: partire, tornare e poi di colpo Jeanne appare coi capelli più corti... Tante piccole cose così… Ma tutto ciò in effetti riguarda la produzione, ne è una conseguenza. È come se produzione e realizzazione fossero contenute nello stesso gesto.

Eppure è piuttosto evidente che in tutti i tuoi film la luce giochi un ruolo importante
Sì, ma non me lo dico, non ci penso mai. Non ne parlo mai in questi termini a Christophe (Beaucarne, il direttore della fotografia), non ne discutiamo. Anche la sequenza estiva de La chambre bleue: siamo andati un po’ prima a fare un sopralluogo, c’era molta gente, ci siamo detti “un sacco di comparse gratis”, e abbiamo avuto la fortuna, davvero rara, che ci fosse un tempo così bello a Les Sables-d’Olonne. È davvero molto raro che ci sia una luce del genere e che duri uno o due giorni. Certo, ci siamo detti con Christophe che c’era qualcosa di fotografico, che questo film aveva qualcosa di fotografico. Non il piano fisso, non le inquadrature dei tre (protagonista, moglie e figlia). E dunque qualcos’altro, come fanno le formiche quando muovendosi creano delle macchie. E ovviamente sapevo, perché è così nel romanzo (di Georges Simenon), che la sequenza precedente era quella in cui il protagonista e la moglie si coricano, la luce soffusa delle lampade nella stanza, e poi spengono la luce, click, e bam, arriva la piena luce della scena della spiaggia. È ovvio che è una luce che ferisce, che ti fa male agli occhi. Ma è difficile però ricostruire se le cose fossero state formulate in questo modo, oppure no.

È interessante perché è un po’ come se tu le cose non le pensassi ma le sentissi, cioè come se non fosse un atto psicologico, razionale, ma fisico
Sì, è così, è esattamente questo. E poi ricomincia al montaggio. La ricostruzione di quel che hai fatto. E François funziona così, facendo moti di approvazione o di disapprovazione, ma in realtà non parliamo mai in maniera dettagliata, discutendone. Per esempio, ne Le Stade de Wimbledon, quando Jeanne dice a una delle infermiere “vi ho detto tutto quello che so”, è stato un modo, come se non fosse scritto nel romanzo, di dire “sì, è veramente una poetessa, è stata lei a scrivere quelle poesie”, ma senza dare troppe informazioni, sarà lo spettatore a ricavarle. E la protagonista stessa sta a sua volta scrivendo un romanzo, sta raccogliendo materiali a cui solo dopo darà forma. Allora lavori mettendo assieme delle impressioni, hai la testa piena di cose, che poi prenderanno forma.

Ho l’impressione, vedendo i tuoi film, da "Mange ta soupe" fino a "La chambre bleue", che tu sia sempre più slegato dalla psicologia e sempre più vicino al corpo, ai sensi. Sempre meno mentale e sempre più carnale
Ho rivisto da poco Mange ta soupe, qualche mese fa e, come per Le Stade de Wimbledon, erano parecchi anni che non lo rivedevo. E mi ha molto commosso, ovviamente. L’ho rivisto con la famiglia, a Perpignan, c’erano mio zio, mia zia. Ci sono dentro molti dei miei ricordi personali. Ma, quando l’ho fatto, mi sono divertito a fare dei tagli, avevo un piano molto preciso, il direttore della fotografia era un vecchio architetto, quindi tutto era molto preparato. Io mi ero detto di lavorare in un certo modo, ma quello che più mi toccava era questo giovane uomo che cercava di fare della commedia nella tragedia. Questo mi pareva bello… lo sai, è un tale disastro la famiglia… cercavo di trovare della commedia là dentro. Mentre, per esempio, La chambre bleue è un film che non sopporto più. Mi ghiaccia… Con questo tipo che non va bene, non va bene per niente.

Beh, ma è così nel romanzo…
Sì, ma c’è qualcosa che mi disturba, da cui vorrei proprio allontanarmi. Il caldo e il freddo… Qualcosa nella forma… Ci vedo una paura della sessualità, che non va bene per niente. Questa claustrofobia. Non ha niente di primitivo. E siccome poi mi viene da fare un film contro il precedente, ora sto cercando qualcosa che mi permetta di uscire da lì. Ma sto lavorando su Jean Echenoz e l’ho detto a Philippe (Di Folco, scrittore e sceneggiatore anche di Tournée) che ho paura di ricadere nella miniatura, nel formalismo. Non voglio più questo, vorrei ci fossero cose che circolassero.

Quando ho visto "La chambre bleue" ho pensato fosse un film politico
Ah sì? Non ci ho mai pensato.

Sì, perché è una scelta politica mettere in scena due corpi senza filtri, in contrapposizione a chi, per esempio, conduce l’inchiesta e chiede spiegazioni, motivazioni, parole su qualcosa che non ha parole. È anche la domanda che si pone Godard in "Adieu au langage": meglio vivere o raccontare?
Sì, non ci puoi mettere delle parole sopra… Ma questo però è Simenon e tu sai quanto me, avendo letto il libro, qual è la sensazione, com’è quel tipo di esperienza. Io ho cercato un punto in comune.

E hai fatto un film carnale
No, non è carnale. È una dissezione. Non riesco più a guardarlo, infatti. Dopo aver girato ho lavorato ancora molto sul romanzo. Mi sono permesso delle costruzioni, ma, non so, ho avuto un po’ l’impressione di fare del modellismo... Non c’era grazia... C’era la proposta di Paulo (Branco, il produttore) che mi aveva detto di fare un film molto velocemente, tre settimane. C’era questo libro che conoscevo da molto tempo ma non avevo mai pensato di farne un film. Mi ha ispirato l’ultima scena di Tournée, che con Philippe avevamo chiamato la chambre bleue e l’assistente aveva anche trovato una camera azzurra e, prima di trovare l’albergo abbandonato, avevamo addirittura girato nella camera azzurra. E per me era questo, Tournée doveva finire con una coppia dopo l’amore, con questa donna che fa attenzione al sonno dell’amante, a cose che erano state dimenticate… Era questo insomma.
Avevo trovato la medesima sensazione dentro La chambre bleue, nella prima scena, questi due corpi che si attirano, il mondo altrove. La prima pagina del libro è impressionante. E allora ho chiamato Paulo e ho detto “non in tre, ma potremmo farla in quattro settimane”. E da lì siamo partiti, il 25 febbraio abbiamo incontrato John Simenon, il primo aprile la sceneggiatura era pronta e il 15 luglio abbiamo iniziato a girare. Nel frattempo io lavoravo in Svizzera al film dei fratelli Larrieu, L’amour est un crime parfait.
Sì, è stata una lavorazione molto veloce, in effetti. E mi sono detto “sarà un film di genere”. Ho guardato molti film di Jacques Tourneur, di Otto Preminger, Angel Face… Avevo pensato di girare col piacere di seguire un’inchiesta: chi ha ucciso chi, chi è morto, cosa è capitato… E poi la scelta degli attori. Ho pensato che potesse essere una buona idea far recitare la parte della moglie del protagonista a Léa Drucker, che è molto conosciuta in Francia, anche per via della televisione, e quella dell’amante a Stéphanie Cléau, che è la sceneggiatrice del film e ha sempre adattato molti romanzi anche per il teatro, ma non aveva mai recitato. Mi sembrava si potesse creare quella situazione che trovi in certi film di Marion Vernoux, in cui tra le due interpreti c’è una specie di gara, per chi è più forte, chi vince. E poi Stéphanie, non essendo, appunto, conosciuta come attrice, poteva aggiungere qualcosa, quell’impressione che hai vedendo certi volti nelle foto sul giornale, o in televisione, a cui presti poca attenzione e poi rimangono misteriosi, ti domandi chi siano… Ho lavorato un po’ così, con delle intuizioni del genere.

Per questo mi viene da dire che il tuo approccio, ai film che giri, sia più fisico che mentale, al contrario, per esempio, dei film in cui reciti solamente, penso per esempio ai film di Arnaud Desplechin
Ma non è psicologico Arnaud, per niente. E anche il suo modo di lavorare non lo è. C’è qualcosa di più ampio, c’è della sagacia. E siccome è un regista straordinario quando lavori con lui ti gusti ancora di più la vita. Non vivi delle questioni meramente psicologiche, vivi dei veri e propri conflitti… shakespeariani.

Sì, però, se penso ai tuoi ruoli con lui: in "Rois et reine" (2004) Ismaël è bipolare, in "Un conte de Noël" (2008) Henri è nevrotico e un po’ alcolizzato, in "Jimmy P." (2013) Georges Devereux è uno psicanalista. E anche la quantità di conflitti che i personaggi vivono con la madre, il padre, i fratelli, all’interno della famiglia, sono in buona parte di natura freudiana… Per questo mi viene da dire che nel cinema di Desplechin ci sia qualcosa di più psicologico e meno fisico rispetto al tuo
Sì, probabilmente è vero. Ma forse perché io lavoro sempre con lo stesso gruppo di persone, che mi sono vicine, e da loro sono in un certo senso protetto. Il regista che ha potere assoluto invece è solo. E ha paura e nessuno lo aiuta, nessuno lo sostiene o lo ama. Io invece sono un po’ al riparo.

Il modo in cui lavori, da quello che dici, mi fa venire in mente il lavoro di un jazzista. Credo fosse così anche per uno come John Cassavetes: vedendo i suoi film tutto sembrava improvvisato, naturale, mentre tutto era scritto e preparato con precisione estrema
Io scrivo sempre tanto, per esempio. Scrivo tantissimo. Ma quest’impressione che tu hai è anche dovuta a delle ragioni economiche. Quando sei giovane ti fai intrappolare, una o due volte, e poi beh, il sole è già sceso, e poi è finita… Allora è meglio immaginare… Per esempio se noi filmassimo il nostro incontro, potremmo fare tutte le ipotesi su come filmarlo, pensare a cosa sta accadendo, avere delle immaginazioni. Io di solito, quando devo girare, mi sveglio molto presto, durante la notte, per preparare e stampare le pagine della sceneggiatura. Essere in anticipo su chi lavora con me. E così mi sembra un po’ di aver colto il mattino, di giocare d’anticipo, ma questo mi viene dal fatto di aver preparato per bene la sceneggiatura, prima.

Nel finale di "The Sheltering Sky" (Il tè nel deserto, 1990) di Bernardo Bertolucci, Paul Bowles dice: “Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile. Però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che, senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita? Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna? Forse venti. Eppure tutto sembra senza limite”. Sentendoti parlare del tuo lavoro mi viene in mente questo
Sì, è vero, io funziono così. Mentre per esempio Arnaud è impressionate, è in grado di porre delle parole sulle cose, di fare un discorso sulle cose, ha delle teorie su quello che fa, molto precise, e questo gli permette un gioco dialettico, che è magnifico, in effetti. Io mi sento più come uno che cerca di cogliere qualcosa che gli sta scivolando fra le dita, come fosse sabbia, in realtà sono i ricordi. Come se dovessi sempre costruire un castello di sabbia che poi un’onda spazzerà via e io dovrò ricostruire daccapo. Per esempio La chose publique (2003), che è un film per la televisione, che è stato realizzato in maniera totalmente folle, e non doveva nemmeno essere realizzato, è un film un po’ così.

Hai anche recitato nell’ultimo film di Arnaud Desplechin, "Trois souvenirs de ma jeunesse" (che molto probabilmente sarà al prossimo Festival de Cannes)
Sì, ho una piccola parte. Sei giorni di riprese. È fondamentalmente un film su due adolescenti: Paul Dédalus e Esther a undici anni, a sedici-diciotto anni e a vent’anni. Io faccio Paul Dédalus adulto. E qua ci sono delle cose vicine a La sentinelle (1992), problemi legati all’identità. Devo ancora vedere il film per intero, ma la scena che Arnaud ha scritto per me è straordinaria. È l’epilogo, Paul Dédalus alla mia età, e quello che ha scritto è sublime. Ma Arnaud è un regista sublime.

 

1 “Non c’è uomo che giunga a lasciare una traccia / su costei. Quant’è stato dilegua in un sogno / come via in un mattino, e non resta che lei. / Se non fosse la fronte sfiorata da un attimo, / sembrerebbe stupita. Sorridon le guance / ogni volta. / Nemmeno s’ammassano i giorni / sul suo viso, a mutare il sorriso leggero / che si irradia alle cose. Con dura fermezza / fa ogni cosa, ma sembra ogni volta la prima; / pure vive fin l’ultimo istante. Si schiude / il suo solido corpo, il suo sguardo raccolto, / a una voce sommessa e un po’ rauca: una voce / d’uomo stanco. E nessuna stanchezza la tocca. / A fissarle la bocca, socchiude lo sguardo / in attesa: nessuno può osare uno scatto. / Molti uomini sanno il suo ambiguo sorriso / o la ruga improvvisa. Se quell’uomo c’è stato / che la sa mugolante, umiliata d’amore, / paga giorno per giorno, ignorando di lei / per chi viva quest’oggi. / Sorride da sola / il sorriso più ambiguo camminando per strada.” (Cesare Pavese, Un ricordo in Lavorare stanca, Einaudi, Torino, 1943).