Emmanuel Carrère è stato protagonista la scorsa settima di L’immagine e la parola, evento primaverile del Festival di Locarno dedicato al rapporto fra l’immagine in movimento e la parola scritta. Con i curatori Carlo Chatrian e Daniela Persico, Carrère ha tenuto un workshop sul lavoro di scrittore e regista, curato la scelta dei film in programma (non solo quelli che ha diretto o scritto, ma anche quelli che l’hanno segnato come autore e spettatore, tra cui Sans Soleil di Marker), discusso con il neo-premio Oscar Paweł Pawlikowski, suo amico e collaboratore, e tenuto una lettura pubblica del suo ultimo libro, Il regno, da poco uscito anche in Italia per Adelphi.
Abbiamo incontrato Carrère e con lui abbiamo discusso di scrittura documentaria, dei suoi film, dei suoi romanzi, di come si relazione con la realtà e le persone che incontra, di come ha lavorato alla sceneggiatura della serie Les Revenants, e anche del suo lavoro di critico cinematografico quando, a inizio ’80, aveva vent’anni e, come scrive in Limonov, «non sapeva bene cosa fare della sua vita».
Il suo primo film da regista, Retour à Kotelnitch, è un documentario: in molte occasioni ha detto di essere stato profondamente influenzato da quel lavoro e dal rapporto che durante le riprese ha instaurato con la realtà che aveva di fronte. Anche molti suoi libri, in fondo, come L’avversario, Vite che non sono la mia, Limonov e lo stesso Il regno, sono a loro modo «documentari», costruiti cioè a partire dalla sua, di vita, e da quella delle persone che incontra o dalle quali è affascinato. Come lavora con il materiale che raccoglie, con la realtà che modella su sé stesso e che usa per costruire delle narrazioni? E cosa distingue secondo lei il lavoro dello scrittore da quello del regista?
Trovo che un paragone fra il lavoro di scrittore e di regista sia pertinente, dal momento che in entrambi i casi ci sono almeno tre fasi: la sceneggiatura, le riprese e il montaggio, che se parliamo di libri diventano il momento dell’incontro con il soggetto, la scrittura vera e propria e il montaggio di ciò che si è prodotto. In un film questi momenti sono distinti e distanti fra loro, mentre nella scrittura tutto avviene in maniera più fluida, le fasi tendono a sovrapporsi. Se poi parliamo di cinema o scrittura documentaria, la principale virtù di questo approccio è l’apertura verso il reale, la necessità di mettere da parte la propria volontà e stare a guardare in quale direzione il lavoro procede. Ci sono, certo, un soggetto e delle riprese, ma tocca al montaggio, credo, stabilire la direzione del film.
Con Retour à Kotelnitch le cose sono andate proprio così: ricordo che siamo partiti per la Russia con l’idea di girare un reportage, poi una volta arrivati a Kotelnitch, che è il paese in cui è nata mia madre, abbiamo incontrato delle persone, siamo entrati in relazione con loro e un giorno siamo stati testimoni di un episodio scioccante che ha finito per dare al film una direzione imprevista. Fu una sorpresa, un trauma, ma la soluzione fu abdicare al reale, lasciare che le cose avvenissero. È stato poi nel montaggio che il film ha preso forma, e io ho finalmente capito di cosa parlava Retour à Kotelnitch.
Pensa dunque che il lavoro di scrittore abbia qualcosa di cinematografico in questa attesa del reale, in questo sguardo aperto?
Assolutamente sì. I libri che scrivo sono molto simili a un documentario, a cominciare dalla convinzione che il dispositivo si debba vedere, che si debba sentire una presenza. Nel cinema è la presenza della camera, o del regista stesso che entra in scena, mentre nei libri il dispositivo diventa l’io, la prima persona singolare, la mia vita dentro il romanzo. Può sembrare narcisismo, e lo è, ma è anche una questione di onestà, di necessità. Il lavoro che si fa con un libro ha molto a che fare con la visione: in un film il presupposto di base è in fondo scontato, si decide dove mettere la camera e quello è il punto di vista. In un libro le cose vanno diversamente, il senso della distanza è dato dal rapporto fra l’io e il soggetto del lavoro, fra il narratore e il noi dei lettori (penso ad esempio a Limonov, pensato per un pubblico simile a me, un noi di occidentali borghesi che credono nella democrazia e verso i quali uno come Limonov prova molto probabilmente un profondo disprezzo…).
C’è comunque una distanza da tenere, un limite oltre il quale non andare, come se ciascuno avesse il proprio spazio, un cerchio da non superare. La questione cruciale è proprio quella della distanza: anche nel mio unico film di finzione, L’amore sospetto (tratto dal suo stesso romanzo Baffi, ndr), mi sono chiesto dove mettere la macchina da presa, in che modo gestire una realtà ricostruita. E siccome in quel caso non potevo affidarmi al divenire delle cose, sono stato salvato dalla sceneggiatura e dalla struttura che mi ero dato.
Ci può parlare allora del suo lavoro di sceneggiatore per Les revenants? Come avete costruito il racconto partendo da un’idea così potente come il ritorno alla vita dei morti?
Quando ho cominciato a lavorare alla serie, il progetto era a uno stato avanzato, un gruppo di sceneggiatori aveva già lavorato all’idea e l’aveva portata avanti. L’essenza di Les Revenants sta in qualcosa di non tangibile, in un atto di fede: bisogna credere al fatto che alcuni morti tornino in vita senza una vera spiegazione. Nella serie c’è un’idea iniziale, un’ipotesi, e nelle prime puntate si sta a guardare in che modo i personaggi reagiscono – non solo i vivi, ma anche i morti, che non sanno di essere morti. Questo è il carburante iniziale della serie, almeno fino a quando ho collaborato io, più o meno intorno al quinto episodio. La trovo un’idea straordinaria, una situazione drammatica e romanzesca incredibile.
La forza di Les revenants sta nel modo in cui la serie aggira le convenzioni narrative dei film di zombie e di vampiri lavorando soprattutto su un elemento decisivo: il tempo. Non c’è niente di male se un film horror corre spedito verso una soluzione, cercando di spiegare tutto: ma stavolta abbiamo deciso di fare diversamente. Al regista Fabrice Gobert, sceneggiatore insieme a me, continuavo a dire di rallentare, di procedere con lentezza, immaginando come i personaggi potessero comportarsi. Potevamo permetterci di lavorare su un tempo diverso, e di mantenere quella sensazione iniziale di stupore che rende Les revenants una serie potentissima.
Il problema, però, è che a un certo punto la soluzione diventa inevitabile, il genere s’impone e lo stupore svanisce…
È innegabile che, una volta superato lo stadio dello stupore, la serie diventi più difficile da gestire. I prodigi si accumulano, si cercano spiegazioni, e tutto questo diventa difficile da gestire. Penso a Lost, che partiva da premesse fantastiche e ha finito per aggiungere mistero ad altri misteri, soluzioni ad altre soluzioni, risultando sempre deludente. È difficile in un serie spiegare le cose e andare verso una conclusione: da un lato si battono diverse strade, dall’altro si cerca una spiegazione generale che tenga insieme tutto quanto. Ma questa spiegazione è inevitabilmente una delusione… È la logica stessa della serialità, non solo le comprensibili esigenze economiche di chi investe dei soldi, ad obbligare ad aumentare il mistero, le zone d’ombre, ad allargare sempre di più l’indagine, fino a quando si arriva a un punto in cui qualsiasi cosa è un chiarimento e al tempo stesso un ulteriore allontanamento della soluzione… Insomma, il problema è strutturale.
In questi giorni è stato presentato un libro, Emmanuel Carrère - Tra cinema e letteratura, nel quale sono state tradotte per la prima volta in italiano alcune recensioni scritte per «Positif», ai tempi in cui lavorava come critico cinematografico. Che effetto le ha fatto rileggersi dopo così tanto tempo?
Non mi era più capitato di rileggere quello che scrivevo a vent’anni, non avevo nemmeno gli articoli originali. Quando però mi hanno proposto di pubblicare un volume che raccogliesse e traducesse alcuni di quei pezzi, sono andato a rileggerne alcuni. E devo di essere stato piacevolmente sorpreso dal fatto che i miei gusti in fondo non sono cambiati. È piuttosto il "disgusto" di allora che oggi mi stupisce. Ad esempio, scopro di aver scritto che Il ritorno dello Jedi sarebbe un film imbecille: oggi la cosa mi fa un po’ ridere, perché quando l’ho rivisto con i miei figli l’ho trovato bello, estremamente godibile. Mi colpisce, oggi, l’ostilità che allora avevo verso il grande cinema americano e l’atteggiamento pedante da giovane intellettuale radicale e severo. Oggi il disgusto di allora si è attenuato, sono molto più indulgente, mentre le cose che mi piacciono – che ne so: il cinema di genere, Tarkovskij, Herzog – sono sempre le stesse.
A proposito di Herzog, è famoso un passaggio di Limonov in cui lei racconta di un incontro disastroso avuto con lui ai tempi di Fitzcarraldo…
Con Herzog ho avuto un rapporto di amore deluso che con il tempo è diventato distacco. A parte la "ferita narcisistica" che racconto in Limonov, credo che a partire da Fitzcarraldo il suo cinema mi abbia interessato sempre meno. Oggi, però, sono tornato come tutti ad ammirarlo, specie dopo che ha cominciato a girare alcuni dei documentari più belli di questi anni, penso ovviamente a Grizzly Man o Into the Abyss.
In Limonov lo definisce addirittura un «fascista», eppure lei ammette nei confronti di Herzog una fascinazione simile a quella che ha per Limonov, o San Paolo, persone cioè grandiose, scomode, così diversi da lei, suoi "avversari", da cui si sente respinto e al tempo stesso attratto…
Se penso al mio ultimo lavoro, Il regno, come ho modo di dire in parecchi momenti, è certamente Luca il personaggio con cui mi identifico maggiormente, con cui ho più affinità. Ma è vero che è Paolo la figura affascinante: potente, impressionante, bigger than life. Come Limonov o Herzog. Io però mi sento più un Luca, più un Watson che un Sherlock Holmes. Se ho scritto che Herzog è un fascista mi riferivo proprio al senso superomistico della parola, non certamente un’appartenenza politica… Fascismo come attitudine antropologica, come tendenza a essere molto lucidi rispetto ai cattivi pensieri che ciascuno di noi ha, come ad esempio, poniamo, il desiderio di sterminare una parte della popolazione su criteri razziali. Al fondo del fascismo c’è un’idea semplice, l’idea della diseguaglianza fra le persone come parte stessa della società, come essenza della vita, senza possibilità di porvi un rimedio. È un’idea piuttosto scontata, non necessariamente disonorevole, una posizione rispetto alla vita così come si presenta. È la posizione di Nietschze, ad esempio, e per questo rimango sempre sorpreso dalla flessibilità di pensiero con cui parecchi intellettuali del mio Paese cerchino di darne letture "da sinistra": è una posiziona coraggiosa, ma falsa.
Tornando al suo rapporto con la realtà, in molti lavori spesso racconta di personaggi che la creano, questa realtà, e che sono essi stessi scrittori, come Limonov o Luca, o affabulatori, grandi mentitori (come il Jean-Claude Romand dell’Avversario): c’è sempre una tensione fra affabulazione e documentazione, fra la realtà modificata e la realtà che si ribella a qualsiasi tentativo di plasmarla…
Quando si girano documentari, o si scrivono libri fortemente radicati nella realtà, si corrono dei rischi differenti e si hanno responsabilità differenti rispetto a quando si scrive una finzione. Il tentativo di giocare, di scrivere una sceneggiatura e fare in modo che la realtà le si conformi, l’ho provato una volta, con Facciamo un gioco, ed è stato un fallimento totale. Io cerco il meno possibile di appiccicare una sceneggiatura al reale, di accogliere e non pretendere di costruirla. Ne faccio una questione di principio, un principio virtuoso, ma al tempo stesso non posso evitare di aspettarmi qualcosa dal reale, di sperare o preferire che qualcosa accada…
Penso poi di aver scritto libri su persone che a loro modo sono tutti quanti scrittori, perché quello è un modo di avere accesso diretto alla loro intimità, alla loro scatola nera. Quella che ciascuno di noi chiama la propria identità individuale, quella che ci fa dire io, mio, è una racconto, la recita della propria vita. E quando si fa fatica a fare una cosa come questa, a quel punto può intervenire la psicanalisi, che aiuta a consolidare il racconto, a dargli coerenza. Quando scrivo libri io consolido il mio stesso racconto, e cerco di dar forma a quello degli altri. Resta però una questione importante: questi racconti sono illusioni, finzioni che ci fabbrichiamo da noi, e io penso che questa finzione, per quanto utile, e pure necessaria, a un certo punto debba essere dissipata, lasciata andare. Lo dico con molta precauzione ed esitazione, ma a volte ho l’impressione che sia questo quello a cui voglio arrivare, alla dissoluzione del racconto, pur restando in questa costruzione permanente del proprio racconto e di quello degli altri…
Questo vuol dire che un giorno, forse, scenderà in strada e comincerà a registrare semplicemente quello che vede, senza soggetto, semplicemente osservando?
Trovo molto affascinante il fatto che oggi abbiamo tutti quanti la possibilità di prendere una camera, scendere in strada e riprendere, così, senza problemi, con pochissimi soldi, usando quella che ai tempi della nouvelle vague si chiamava la caméra stylo. Il risultato è un cinema che nasce dalla propria esperienza, un cinema del reale, di osservazione del reale. Oggi – ed è così ormai da parecchio tempo – una cosa del genere la si può fare per scelta, non solo per necessità produttiva ed economica.
Quando l’altro giorno ho rivisto l’inizio di Sans Soleil di Marker, che è da sempre una delle mie cose preferite, mi sono chiesto perché non prenda la macchina e mi metta anch’io a filmare quello che incontro. Non parlo necessariamente di un’opera, ma di inquadrare meglio l’attenzione per il reale, provando a modificarne qualcosa. Penso ad esempio ai cineasti, o ai grandi fotografi, che hanno un modo di vivere e guardare le cose completamente diverso da quello della maggior parte delle persone. La loro attenzione è calamitata dalle cose, sono meno distratti, mentre quando la gente cammina per strada non fa che perdersi nei propri pensieri. Nella nostra distrazione c’è una perdita di energia psichica considerevole, mentre chi fotografa o filma ha un tipo di concentrazione, di tensione, che supera la vacuità dei nostri monologhi interiori.