Come molti tuoi film, anche I fantasmi di Ismaël è sospeso tra finzione e realtà, tra affabulazione e verità e chiama in causa in modo diretto il cinema: sembra credere al suo potere di raccontare la realtà e reinventarla ma al tempo stesso sottolinea i limiti di questa possibilità.
Non ho iniziato da giovanissimo, quando ho realizzato il mio primo film avevo 29 anni e conoscevo già il cinema di Nanni Moretti che mi ha enormemente influenzato. Il fatto per esempio che Moretti si serva sempre di se stesso mi ha ispirato: cerco di creare delle storie stupefacenti, bizzarre, strane, sorprendenti, romanzesche in cui anche io mi servo di me stesso per dare una sfumatura di sogno alla finzione, perché non si sappia mai se si tratta di un racconto autobiografico o no, se è una cosa immaginata o no, affinché tutto si mescoli come in una tessitura tra la vera vita e la finzione. Questo è quello che mi affascina. Ci sono molti film realisti che adoro, sono un grande fan del cinema dei fratelli Dardenne per esempio, ma non credo che il realismo sia più vero della finzione. Per esempio Ismaël ha dei rapporti catastrofici con suo fratello e allora inventa una storia strabiliante e meravigliosa in cui il fratello è un eroe, cosa che non è affatto nella realtà. Grazie all’immaginazione possiamo davvero comprendere fino a che punto sia straordinaria e meravigliosa la vita quotidiana. Questo è per me il potere del cinema.
La mescolanza spesso nei tuoi film diventa anche mescolanza di generi - il polar ma anche il romanzo epistolare, il melodramma, la spy-story - e di livelli della narrazione. Succede anche in Les fantômes d'Ismaël che sembra sempre sospeso tra gioco e tragedia. Cosa ti affascina di questa costruzione e qual è l’effetto che cerchi?
In Les fantômes d'Ismaël si passa continuamente da un genere all’altro ma penso per esempio anche a un altro film che mi è molto caro come Re e Regine dove il sovrapporsi dei livelli è fondamentale: ci sono melodramma e slapstick comedy, tragedia e commedia burlesque. Come là, anche qui tutte le storie si intrecciano le une con le altre: il dramma di Marion Cotillard con la sua solitudine e la sua insolenza, la melancolia un po’ alla Woody Allen di Charlotte Gainsbourg, le avventure di spionaggio di Louis Garrel con Alba Rohrwacher e poi improvvisamente una specie di tuffo nel burlesque con la fuga a Roubaix... Attraverso peripezie e finzioni cerco di catturare le scintille della vita, è questo che mi piace ed è anche il motivo per cui farei fatica a fare un film di un solo genere. Mi piace molto mescolare, confrontare, opporre i generi, saltare dall’uno all’altro tenendo lo spettatore per mano affinché non si perda e accetti di passare da un registro all’altro.
La sovrapposizione dei livelli si ritrova anche nella messa in scena. Per esempio, nelle scene che si svolgono nella casa sulla spiaggia la messinscena svela la sua natura finzionale lasciando intravedere dietro il mondo reale: il vento, le tende che si muovono, le porte e le finestre che mettono in prospettiva lo spazio come dentro a un teatro...
Si tratta sempre della commistione tra l’amore per la vita e quello per la finzione. Non sarei capace di fare un film in teatro di posa. Ho filmato quelle scene nell’isola di Noirmoutier: ho bisogno del mare vero, delle tempeste, delle maree, del sole che arriva improvvisamente per portare la vita nella finzione. La casa che si vede, per esempio, è totalmente fittizia pur essendo reale, composta da cinque case diverse. È una lezione che ho appreso dalla Nouvelle Vague: quella di confrontarmi sempre con la realtà e dunque di girare sempre in location, come dicono gli americani, cioè in un contesto naturale e non in teatro di posa. Se qualcosa non va, si può improvvisare qualcos’altro: la scena in quella stanza non funziona come pensavi? Si prova a farla all’esterno ed ecco che è perfetta! È questo che porta il fremere della vita dentro alla finzione.
Penso a quel movimento all’indietro della mdp che finisce su una terrazza della casa dove si vede un libro appoggiato aperto con le pagine girate verso un lenzuolo.
Ecco sì, questa è una di quelle cose che si improvvisano perché i luoghi hanno il loro genius. In preparazione passo molto tempo da solo a fare foto, in modo che, quando si gira, sono pronto a improvvisare con gli attori. Non improvvisare il testo perché non mi piace quel tipo di improvvisazione, ma il modo di filmare, cogliendo quello che la realtà in quel momento ci sta offrendo. Non mi piace l’idea di girare in studio proprio perché questo non si potrebbe fare, ci sarebbero infatti solo le mie idee mentre in location ci sono le mie idee più la vita vera.
Non ti piace l’improvvisazione sui testi, il che vuol dire che dai un’importanza fondamentale alla scrittura.
Cerco sempre di cogliere i miei personaggi nei momenti in cui dicono cose eccezionali, in cui vengono sorpresi a dire la verità su se stessi: quando il personaggio si scopre per aver detto una verità più grande di lui, la mdp deve essere lì. Spesso, l’idea da manuale di sceneggiatura è che, nel cinema realista, il personaggio debba essere più stupido del regista e dello spettatore, che non abbia cioè il diritto di dire la verità su se stesso. Ma si tratta di un’idea banale, e se filmassi momenti banali avrei il timore di annoiare lo spettatore. Quello che invece adoro nel cinema di Woody Allen, di Nanni Moretti o di Quentin Tarantino è che i personaggi hanno la capacità e il diritto di parlare di se stessi. Questa verità passa attraverso il testo ma anche attraverso i gesti, pensati e scritti con precisione come le parole. Penso alla scena in cui Charlotte Gainsbourg arriva per lasciare Mathieu Amalric e fa il semplice gesto “non vedo, non sento, non parlo”. Fa solo questo: tre gesti molto semplici, ma sufficienti a esprimere tutto.
È come se tutta la complessità della costruzione narrativa si risolvesse in questi piccoli gesti, momenti semplici ed emozionanti - penso a Sylvia che legge la lettera a suo fratello - che rilassano le tensioni portando il film verso il pieno compimento.
La tensione del film si costruisce intorno alla moltiplicazione delle storie ma in realtà si tratta di un film molto semplice, un film sui sentimenti: che cosa sono il lutto, la perdita, la speranza, l’amarezza? Si attraversano molti generi cinematografici diversi per descrivere dei sentimenti comuni, tanto semplici quanto profondi.
Un po’ come in tutto il tuo cinema d’altra parte. I tuoi film sono molto aperti, complessi e essenziali al contempo, pieni di vita ma anche di ossessioni, semplici ma anche inafferrabili. Lo è lo stesso Mathieu Amalric nei panni di Ismaël: un uomo pieno di vita ma anche pieno di incubi, pieno di amore ma anche di rabbia…
Ismaël è too much: si spinge troppo in là, è troppo grossolano, fuma troppo, beve troppo, prende troppe droghe, litiga troppo, grida troppo. Questo personaggio così estremo, esplosivo, divertente da interpretare, improvvisamente però, grazie alla performance di Mathieu, ti sorprende diventando molto modesto, timido, dolce, come quando è davanti a Bloom o a Sylvia. Il fatto che Mathieu sia riuscito a dare a Ismaël questi due volti arricchisce il personaggio di sfumature che per esempio non aveva l’Ismaël di Re e Regine.
Nella tua filmografia c’è sempre questa specie di mise-en-abîme di temi, personaggi, nomi, riferimenti diretti ai tuoi stessi film ma anche citazioni altrui, come quella hitchcockiana del personaggio di Carlotta. Cosa significa per te questo rebus continuo?
Non si tratta di un desiderio balzachiano, non c’è l’intento programmatico di costruire una comédie humaine basata sulla logica dei personaggi ricorrenti. È qualcosa che ho rubato a Bergman. Vedendo i suoi film mi sono reso conto che alcuni nomi ritornavano, Elisabeth Vogler, Hanna… i nomi sono diventati allora per me come dei segnali da mandare agli attori. Per esempio, Esther è una ragazza alla quale mancano le parole per esprimersi ma che ha dentro di sé una forza vitale molto forte. Ogni volta che in un film trovo un personaggio così, lo chiamo Esther. Quando scelgo il nome Ismaël, invece, penso subito di mandare un messaggio a Mathieu dicendogli “questo personaggio sarà sopra le righe”. È Il nome che dò agli artisti, e infatti anche qui è si tratta di un regista, non un artista egocentrico, ma uno che semplicemente dice “sono un fabbricante di film”. Paul Dedalus è schivo, trattenuto, in imbarazzo con se stesso. Sylvia - e ce ne sono state altre nel mio cinema come la Chiara Mastroianni di Racconto di Natale - è fuoco sotto la cenere, una donna paralizzata dalla paura di vivere, alla quale si ha voglia di urlare “entra nella vita!”. Quando individuo delle problematiche umane, dò loro un nome che poi porto avanti.
Sylvia e Carlotta sono anche la proiezione dei desideri di Ismaël. Oppure sono i suoi fantasmi? Oppure ancora, rappresentano una specie di eterno femminino che non riuscirà mai a raggiungere?
Nei personaggi c’è una grande forza, come nelle due attrici; quando si trovano una di fronte all’altra, l’uomo (Ismaël) deve scomparire. Le due donne sono totalmente differenti ma non opposte, rappresentano due modi diversi di stare al mondo. Quando le guardi insieme ti accorgi che per Marion l’arte sta in un punto e per Charlotte in un altro. Questo dà loro una singolarità molto forte e per questo mi ha reso molto felice averle entrambe nel mio film. È evidente nella scena della danza, che non a caso è senza dialoghi: Carlotta/Marion è come un cucciolo dispettoso, una ragazzina che provoca ma senza malizia, sembra dire semplicemente “io sono in vita e tu invece non hai il coraggio di vivere”. Una è vita, gioia e esplosività, l’altra pudore e timore. Non c’è un modo giusto e uno sbagliato, c’è un conflitto, ma non ci sono bassezze tra le due, sono semplicemente due modi diversi di stare al mondo.
Un altro elemento che torna spesso nel tuo cinema è il suicidio. Penso naturalmente a La vies des morts ma anche a Re e regine, dove Ivan diceva: “non è facile essere il suicida di qualcuno”. Carlotta stessa è in un certo senso una suicida che decide di resuscitare. Cosa rappresenta per te l’idea della morte autoimposta? O si tratta più in generale della possibilità di decidere della propria esistenza?
Innanzitutto è una cosa legata a dei motivi personali; è uno dei miei più grandi timori perché sono stato costretto ad affrontare il suicidio da giovane nella mia famiglia. È una vertigine, un atto profondamente comprensibile perché in fondo non c’è nulla di più umano che suicidarsi ma è anche un gesto opaco, perchè nessuno sa mai il perché si commette. Trovo molto cinematografico questo mistero che caratterizza il suicidio e mi interessa perché in quel momento il personaggio può dire “mi fermo qui”, rivelando paradossalmente se stesso attraverso il gesto più enigmatico che ci sia. Questa mescolanza di luce e ombra mi ossessiona, come la dialettica molto complicata tra estrema libertà e sua assenza totale. La persona che si suicida crede di scegliere, anche se è ovvio che quando si è davvero liberi si sceglie la vita e mai la morte: è perché si è schiavi di qualcosa che ci si suicida. L’altro aspetto che mi ossessiona è il senso di colpa di chi resta senza poter spiegarsi i motivi di questo gesto. Dunque si mescolano estrema libertà e estremo senso di colpa. Tutto questo ha a che fare con la possibilità di decidere della propria esistenza. Una fantasia che ho sempre avuto è quella di sparire, di lasciare tutto e di reinventarmi. Questo tema ritorna più volte nel film e mi piace definirlo con l’espressione americana "the Second Chance", cioè l’idea che ci si possa reinventare. Carlotta lo vive in modo estremo sparendo, andando in India, drogandosi, fino a quando ritorna dicendo: “sono una nuova persona, ma resto sempre la stessa”. Succede però anche a Ismaël e Sylvia, nel loro incontro un po’ à la Woody Allen. Ismaël è vedovo da vent’anni, vive come un barbone, ha tutti i difetti del mondo; Sylvia invece è stata in disparte, non ha osato vivere fino in fondo; non sono più giovani, non si tratta certo del primo amore, ma è, appunto, la loro seconda possibilità. Uno dei temi molto forti del mio film è proprio l’ode a questa second chance.