I 7 minuti indicati dal titolo sono il tempo detratto dalla pausa lavoro di un gruppo composto da undici operaie, chiamate a decidere se accettare la proposta di una nuova proprietà, francese, dell’azienda tessile di provincia in cui prestano servizio, alcune di loro da molti anni. È questa, in breve, la storia che si racconta nel quindicesimo film da regista di Michele Placido. Una confezione da kammerspiel, un intento di denuncia in veste di apologo al femminile, sostenuto da undici diverse tipologie.
Il risultato va a sommarsi al recente campionario di film dedicato alla donna dal cinema italiano, sullo sfondo di un Paese i cui contrasti paiono non conciliarsi più. Si aggiunga che il canovaccio, come già per l’ultimo lavoro di Cristina Comencini, reca una derivazione teatrale in cui l’occasione di dibattito funge da innesco per un variegato confronto caratteriale.
Questa volta però, l’emancipazione femminile altre volte affrontata, cede il posto a una questione corale inerente la forza-lavoro, condannata a prospettive sempre più grame, e chi vi presta servizio con la forza della disperazione, tanto più se si tratta di una donna. Di fronte all’assortito campionario umano che 7 minuti mette in mostra, si potrebbe ripensare all’indagine psicologica, non meno dolorosa, da Placido condotta ventiquattro anni fa nell’inquieto alveo adolescenziale de Le amiche del cuore. E la coralità che in Romanzo criminale si tramutava in serrato gioco di caratteri, entro un impianto d’azione memore del poliziesco anni Settanta, in 7 minuti si tramuta nel suo rovescio: l’azione, tangibile, è misurabile in sottrazione, negli sguardi e negli intenti, nelle vedute e nelle caratterizzazioni di volti femminili chiamati a prendere una decisione delicata e determinante per tutte. Qualcosa di simile all’evergreen giudiziario scritto da Reginald Rose per la televisione, che conobbe l’esordio al cinema di Sidney Lumet e anni dopo, tra alti e bassi, due rifacimenti a firma William Friedkin e Nikita Michalkov (con quest’ultimo, Placido condivide la fugace parentesi delle dipendenti che, in smaniosa attesa di sapere se l’azienda chiuderà, giocano a pallacanestro come i giurati nella palestra).
Messi da parte gli stucchevoli intimismi di coppia nell’infelice La scelta, tra le quattro ristrette mura di uno sgabuzzino sono chiuse le undici operaie al centro, chiamate a decidere delle poche ore concesse loro per dare un voto atto a condizionare le proprie esistenze e quelle di numerose colleghe. A una seconda metà assai poco rinunciataria dei citati prototipi, ne prelude una prima in cui un montaggio di tipo documentaristico illustra il privato di ciascuna donna: madri di famiglia – qualcuna con figlia-collega in imminente gravidanza – o mogli con mariti disoccupati a carico, e giovani irrequiete che sfogano nella boxe e nell’ostentazione dei tatuaggi la tempra sanguigna e ribelle. La decisione inizialmente unanime, come ovvio, è ripensata e rimessa in discussione in un confronto incalzante che sfocia nel gioco al massacro, omnia contra omnes, dove i dilemmi personali fanno il paio coi pregiudizi verso le etnie (tacciate di essere detentrici di priorità rispetto ai lavoratori italiani). E chisino alla fine tiene le fila con la logica della sobrietà e del buonsenso, costantemente invitando a ragionare prima di decidere, risulta essere il punto di congiunzione su cui grava il peso dello scrutinio decisivo. Troppo poco impiegata dal grande schermo, Ottavia Piccolo si rivela la migliore del mazzo, interpretando con consumato mestiere chi, dalla parte dell’etica, è indotta a fare il passo indietro e allontanarsi dalla seduta.
Ancora una volta, sulla base dell’omonima pièce di Stefano Massini e con la complicità dello sceneggiatore Toni Trupia, Placido obbliga lo spettatore a un confronto esistenziale, personale e psicologico, in cui dolenti verità, registrate dalle pieghe del reale quotidiano, affiorino dai volti e dalle parole dei personaggi (come, del resto, emergeva in titoli altalenanti quali Un viaggio chiamato amore, Vallanzasca – Gli angeli del male o l’autobiografico Il grande sogno). E se il parallelo più confacente è con Mi piace lavorare di Francesca Comencini o col recentissimo Sole, cuore, amore di Daniele Vicari, amari disegni femminili in un mondo del lavoro dalle regole azzerate, non siamo distanti nemmeno da La felicità è un sistema complesso: il titolo, ormai un piccolo monito, non camuffava le amarezze di un ordigno teso ad alimentare la propria presenza sulla pelle degli altri, nella fattispecie la fascia più giovane e sprovveduta, ricorrendo al vergognoso mobbing.
Se l’operina di Zanasi era una favola destinata a un epilogo ottimista, nonostante non vi fossero cattivi da sgominare con l’identica elementarità delle fiabe, 7 minuti non gioca la stessa carta, pur mantenendo intatto l’identico livore verso la legge del mercato. Ed è curioso che il film di Placido giunga nelle sale italiane con un mese di anticipo sul referendum costituzionale, insieme a opere come quelle di Loach o di Rodrigo Plá, filmmakers i cui lavori scavano di petto nel sottosuolo della burocrazia impiegatizia, sedicente compagna di lotta ma solo a parole. Nel mare magno di ritratti di donna offerti da Placido, ciascuna col proprio drammatico retroterra, gli stereotipi della vittima della violenza domestica o della disabile, resa tale dalle negligenze del posto, si fanno prototipi necessari per la radiografia di un presente che restituisca il problema nella più realistica oggettività. E che il progetto sia fortemente sentito, lo conferma la conduzione familiare vagamente memore di Cassavetes: la figlia Violante nel ruolo della coriacea paraplegica, il piccolo ruolo dello stesso Placido come dirigente dell’azienda insieme ai fratelli Donato e Gerardo Amato. La dice lunga, anzi, sull’impostazione professionale di un cineasta che quasi mai è riuscito ad essere autore tout court: come già capitato in precedenti occasioni, anche a 7 minuti si potrebbe obiettare un didascalismo di fondo data la complessità di un tema che, nonostante l’impegno di un cast in costante rischio di maniera, è il vero protagonista, ma che in altre mani avrebbe forse avuto l’eversiva carica di un cinema sociale ora scomparso come certi suoi maestri. In verità, l’osservatore difficilmente è preso al laccio dalle quotidianità delle undici eroine, raffigurate da interpreti che visibilmente “recitano” senza reale autenticità (inclusa l’esordiente Fiorella Mannoia), indotte a urlare ed inveire tra loro, quando non mettersi le mani addosso, affinché il voto finale non gravi sul loro avvenire a beneficio del profitto altrui.
Non mancano sbavature né soluzioni didascaliche, e forzose, come nella gestione di alcuni passaggi, dove l’insistito utilizzo del ralenti e l’accompagnamento musicale di Paolo Buonvino, nei segmenti di maggior intensità, conducono a un effetto destabilizzante, non classificabile. Si tratta dei soliti e ormai noti difetti di manico del regista, dichiarati quasi come rivendicati stilemi: condivisibile o meno, è la cifra stilistica di un artigiano il cui paradigma di semplicità all’origine, nonostante la veemenza nella sostanza, è il pregio che conferisce onestà (intellettuale?) a piccoli progetti d’inchiesta che forse valgono più di epidermiche, rischiose ambizioni à la Tornatore. E nei serrati interni in cui si consuma la suspense di questo dramma da camera, dietro la scorza del nobile intento, è lecito individuare un’altra “pura formalità”: una concreta risposta a un astratto, multiforme e non evitabile quesito.
L'incertezza del futuro appesa a 7 minuti. Un caleidoscopio di vite diversissime e pulsanti: vite di donne, madri, figlie. Undici caratteri, per una riflessione sulla possibilità concreta di opporre resistenza e di reagire all'incertezza del futuro, tra caos, logica e giustizia.