Se ci si mette in testa di girare il remake di un classico della commedia all’italiana come Il vedovo di Dino Risi, bisognerebbe attrezzarsi meglio. Se per il ruolo che fu di Alberto Sordi viene scelto Fabio De Luigi, magari qualche smorfia in meno, stile Love Bugs, la si sarebbe potuta suggerire. Se a interpretare l’inarrivabile Franca Valeri (“cosa fai cretinetti, ridi nel sonno?”) si chiama Luciana Littizzetto, non ci si può attendere una prova da Actors Studio.
Siamo nella Milano di oggi, la Torre Velasca non incarna più il vecchio mito dell’arrivismo industrioso e un po’ cialtrone dell’Italia del boom, ma fa da pallida cornice a una selva di cantieri che hanno cambiato volto alla città. I preti adesso invocano il divorzio, un elettricista gay porta il proprio ragazzo al concerto di Biagio Antonacci, i muratori rumeni vorrebbero essere pagati. La ricca imprenditrice Susanna Almiraghi è alle prese con le continue scocciature del marito assillato dai debiti, l’incapace e maldestro Alberto Nardi, chiamato “gnu gnu”. La “falsa” morte di lei in un incidente aereo in Romania innescherà una serie di equivoci e malintesi.
Ancorché “liberamente ispirato”, il film di Massimo Venier riprende quasi alla lettera, con poche variazioni, il soggetto originale del 1959, a cui avevano lavorato penne come Rodolfo Sonego, Fabio Carpi e lo stesso Dino Risi. La differenza salta agli occhi. Quello che era (anche) un concentrato di umorismo corrosivo, diventa qui un’accozzaglia mal gestita di sequenze vuote. La regia, sterile e piatta, trasforma i personaggi secondari (Bebo Storti è un monsignore, Roberto Citran un tycoon donnaiolo e volgare, Alessandro Besentini – quello di Ale&Franz – un serioso ragionier Stucchi) in pure macchiette.
Se la contrapposizione tra Alberto Sordi e Franca Valeri garantiva una sempre rinnovata energia al ben congegnato e verosimile concatenarsi degli eventi, nella pellicola di Massimo Venier (sceneggiata da Ugo Chiti e Massimo Pellegrini) tutto risulta improbabile, telefonato, fuori quadro. Cosa ancora più grave: non si ride mai.
Torna in mente il celebre pamphlet sul cinema italiano di Paolo Bertetto, che Bompiani pubblicò nel 1982, più di trent’anni fa: si intitolava Il più brutto del mondo. Nel radiografare l’“abissale mediocrità dell’immaginario” del nostro cinema, l’autore parlava di “dialettica della banalità”, di “struttura approssimativa”, di “penuria della fantasia”. Eh già.
Usciti dalla sala si pensa con rammarico a quella cinica frasetta di Theodor Adorno: “Ogni volta che vado al cinema ne esco più stupido”.