Nel 1990 John Waters faceva piangere i maschi rockabilly mentre le teenager perbene non ne potevano più della loro ordinarietà stereotipica. Il film si chiamava Cry Baby. Un paio d’anni prima sempre Waters sfruttava la grassofobia mentre ne sfatava l’immagine-cliché. Il film si chiamava Grasso è bello, cioè Hairspray. Ancora Waters, nel 1977, raccontava di una schiera di maschi, tutti praticamente uguali nella loro svettante virilità, al servizio di una sadica regina. Il film si chiamava Nuovo punk story, cioè Desperate Living.
Quando il newyorchese Ira Levin scrisse La fabbrica delle mogli era il 1972 e la Barbie esisteva sul mercato da più di dieci anni. Levin probabilmente, anzi, sicuramente, ne era consapevole: quelle pagine parlavano anche di lei. Non è un azzardo e non c’è da sorprendersi, se consideriamo che lo scrittore ha poi rincarato la dose, ma a proposito dell’altra faccia della medaglia, neanche un lustro dopo, con I ragazzi venuti dal Brasile: tanti piccoli uomini perfetti, cloni di Hitler, per invadere il mondo. Ken era in commercio già da quindici anni.
John Waters e Ira Levin furono chiari: l’omologazione, specialmente se frutto del punto di vista patriarcale, crea mostri. Dalle idee di Levin sono giunte innumerevoli pagine cinematografiche: le più recenti, non esattamente entusiasmanti, quelle di Don’t Worry Darling. Non mi pare lo siano altrettanto, chiari, Greta Gerwig e Noah Baumbach, che di Barbie sono rispettivamente regista e co-sceneggiatrice e co-sceneggiatore. Credete che Barbie sia chiaro, nella sua decisa censura del patriarcato così esplicitamente e ripetutamente enunciata? O nel (neo)femminismo anti-capitalistico? O nella conquista di una libertà di genere che è prima di ogni altra cosa coscienza di autonomia sessuale e strappo dell’ideologia della coppia in quanto armonia istituzionalizzata?
No, non lo è, chiaro. Perché non crede a sufficienza nella lotta. La lotta dal basso, non da dentro; la lotta povera, scalcagnata, non high concept. Waters dava battaglia con il trash (nel suo significato primo, originale, non contaminato), e i panni, i suoi e quelli indossati dall’élite (dello spettacolo), restavano sporchi. Barbie ragiona con i (già) convertiti. E lo fa attraverso il marchio Mattel, che ha un significato più pesante e ingombrante del logo della Warner. Gerwig (lei che, ora nell’industria, si è costruita una carriera nell’indie con ruoli tra il capriccioso e lo scorbutico, e sempre dall’energica indole di “guastafeste”: bisognerebbe prendersi un minuto e riflettere anche su questo) e Baumbach confidano nel carattere sovversivo interno di un progetto nato e distribuito in pieno scenario woke, ma è troppo facile lavorare di vanga e mazza quando la strada non è ostruita. Provate a immaginare Barbie durante la reaganomics (e Ronald Reagan è prevedibilmente una delle immagini di cui il Ken di Ryan Gosling si bea nel suo viaggio nella realtà). Provate a immaginarlo in scenografie di cartapesta mal registrate, in costumi da serie B, in coreografie imperfette, tra ciak da buona la prima. Quanto pubblico avrebbe attirato?
Il problema è che Barbie già lo conosce e lo include, il suo pubblico. Che è, appunto, un pubblico di convertiti, di ogni età. Non è di per sé un vizio di forma: sono in tanti a magnificare il cinema che sa a chi parlare. Però è un’arma spuntata. Nel suo pignolo abuso estetico, nella sua scrupolosità da carta da regalo, Barbie rischia di essere visto, elaborato e mandato a memoria come prova di forza mainstream capace di articolare temi di valore per tutti i gusti (ovvero: per tutti i palati, tutti gli sguardi, tutte le sensibilità). Livellando le asperità. Appianando i dossi. Smussando gli angoli. Sappiamo bene qual è stata la fine del camp una volta ghermito e impiegato dalla cultura egemone. Finisce che Barbie si impegna così tanto per rivolgersi a tutti che non si rivolge in verità a nessuno. Non un midcult, però: Barbie è un incongruo theme-park movie nel momento sbagliato. Lo sarebbe stato anche The Rocky Horror Picture Show, se fosse stato pensato e fatto oggi. Il vero ostacolo contemporaneo da superare è anche una condanna: la battaglia per le idee è un paradosso estetico, principalmente a Hollywood, che adesso chiede a gran voce l’abbattimento di qualunque difformità ideologica e la rimozione teorica di ogni diversità. Neppure un cult movie, nondimeno: perché il cult non nasce per partenogenesi, non è predisposto, non è né un progetto né un programma.
Il risultato è per natura piallato. Senza specificità. Senza nei. Come la bambola che infine scopre sorridente, guadagna soddisfatta, il proprio sesso. Ma è troppo tardi, tutto è già stato lisciato. Chiedete a Mario Mieli cosa pensava dell’assorbimento della ribellione da parte dei poteri dominanti. Chiedete a Bruce LaBruce cosa pensa delle rivoluzioni odierne (e intanto che ci siete recuperate The Raspberry Reich, specialmente nella sua versione porno intitolata The Revolution Is My Boyfriend).
In Barbie non c’è piacere. Non c’è godimento. L’insurrezione è un’illustrazione. Ricca, colorata, sgargiante, pellicciotti costumini trucchi permanenti, però mai maliziosa, mai morbosa, soltanto rosa confetto, altrimenti non tutti avrebbero gradito. Ecco, il punto è proprio questo.
Vivere a Barbie Land significa essere perfetti in un luogo perfetto. A meno che tu non stia attraversando una crisi esistenziale. Oppure tu sia un Ken.