In occasione dell’uscita in sala di Belfast, pubblichiamo alcuni estratti della recensione scritta da Emanuela Martini per il numero 4 della rivista Cineforum (dicembre 2021)
[…] Belfast, il nuovo film di Kenneth Branagh, è stato per lo più girato lontano dalla città della quale porta il nome, non solo perché molte delle strade nelle quali si svolse l’infanzia dell’autore sono radicalmente cambiate, ma soprattutto perché è stato realizzato tra il 2020 e il 2021, in piena pandemia, quand’era impossibile chiedere alle persone di allontanarsi dalle proprie case o mescolarsi a esse. Perciò, la strada del quartiere popolare è stata ricostruita su una pista dell’aeroporto di Farnborough, in Inghilterra.
Eppure è proprio Belfast l’alter ego del giovane protagonista, il luogo dal quale non può pensare di staccarsi, il teatro delle avventure e delle cotte infantili, il posto delle sicurezze (pur nella drammatica crescente insicurezza), quello che resta incistato in fondo all’anima, dopo il punto di non ritorno dell’abbandono e della fine, probabilmente, dell’infanzia. Branagh apparteneva, come Buddy, a una famiglia protestante operaia con padre idraulico e aveva anche lui nove anni quando, nell’estate del 1969, scoppiarono i primi tumulti (The Troubles) che avrebbero portato a vent’anni di quella “guerra a bassa intensità” che tra gli anni ’60 e ’90 contrappose Unionisti protestanti e Nazionalisti cattolici nell’Irlanda del Nord, e che indussero la famiglia Branagh a trasferirsi in Inghilterra. Anche loro vivevano in un quartiere in cui protestanti e cattolici, fino a quel momento, si mescolavano pacificamente e amichevolmente e anche suo padre lavorava in Inghilterra e tornava a casa saltuariamente.
Belfast è la storia di quell’estate che gli cambiò la vita, e di quello che ti rimane dentro anche se altrove hai trovato probabilmente la tua fortuna e certamente il tuo autentico io (ego): umorismo, senso del meraviglioso e fascino della rappresentazione (cinema, teatro, tv), la cognizione del bene e del male, dell’eroe e del cattivo, il senso di sicurezza e protezione che ti dà la collettività che si chiude intorno a te, il pezzo di quartiere-mondo nel quale ti muovi. Un’utopia, in realtà, un sogno d’infanzia, che si materializza in un’intera città.
[…] A parte rare, occasionali deviazioni (come certi soprassalti della mamma che, agli scoppi di violenza, va alla ricerca del figlio per strada), ogni evento del film è visto attraverso gli occhi e le percezioni del piccolo protagonista Buddy. Perciò, è inutile rimproverare a Branagh la mancanza di un’analisi dell’esplosione dei Troubles o l’aura fascinosa che avvolge le figure dei genitori, il sinuoso eroismo virile del padre e la danzante bellezza della madre. Jamie Dornan e Catríona Balfe (lui bravo, ma lei straordinaria, una fremente silfide pop dalle gambe chilometriche) sono così alti, così belli, così simili a divi di Hollywood (Ginger e Fred quando ballano in una delle ultime feste che raggruppa pacificamente nella strada i suoi abitanti) perché così li vede Buddy. E come può percepire un ragazzino di nove anni i Troubles che sconvolgono il suo mondo se non come un duello tra buoni e cattivi?
Qui entra in scena l’immaginario che interagisce costantemente con la realtà di Buddy (e della sua famiglia): la televisione vista in casa, con Star Trek, l’allunaggio, L’uomo che uccise Liberty Valance e Mezzogiorno di fuoco (e le news che raccontano quello che sta accadendo fuori), i fumetti (Thor di Jack Kirby, che uscì nel ’62, una strizzata d’occhio al futuro), il cinema (Un milione di anni fa, preistorico Hammer con Raquel Welch in bikini di pelliccia, scelto dal padre, o Chitty Chitty Bang Bang con l’auto volante, per tutta la famiglia, o il ricordo di Orizzonte perduto e della sua Shangri-La che ancora emoziona la nonna), il teatro (la classica produzione natalizia di A Christmas Carol di Dickens, con la scena tra Scrooge e il fantasma di Marley). Il colore, sullo schermo (o sul palcoscenico) nella sala buia, lo stupore, l’immersione in quel mondo. Un mondo attraverso il quale filtrare e cercar di capire la realtà.
Il colpo d’ala del film: quando in tv Gary Cooper avanza solitario nella strada deserta mentre echeggia Do Not Forsake Me Oh My Darling, e subito la scena di Mezzogiorno di fuoco si trasforma nella sfida, sulla strada “vera”, tra il padre eroe e il “cattivo”, con la stessa canzone. Sarà anche elementare, ma Branagh riesce a rendere i cortocircuiti immaginari che fioriscono all’interno della testa di un bambino, la necessità di catalogare il reale attraverso i segni di un sistema culturale e fantastico condiviso, le sedimentazioni che portano alla formazione della personalità e dell’ingegno. […]
Belfast, 1969. Buddy è un bambino che vive con la mamma e il fratello maggiore in un quartiere misto, abitato da protestanti e da cattolici. Sono vicini di casa, amici, compagni di scuola, ma c'è chi li vorrebbe nemici giurati e getta letteralmente benzina sul fuoco, aizzando il conflitto religioso, distruggendo le finestre delle case e la pace della comunità. La famiglia di Buddy, protestante,si tiene fuori dai troubles, non cede alle lusinghe dei violenti e attende con ansia il ritorno quindicinale del padre da Londra, dove lavora come carpentiere. Emigrare è una tentazione, ma come lasciare l'amata Belfast, i nonni coi loro preziosi consigli di vita e d'amore, la bionda Catherine del primo banco?