Evoluzione: il secondo film diretto da Michael Gracey s’incanala in questo solco. Dopo aver raccontato le gesta abbondantemente romanzate del più grande tra gli showman (iperbole del tutto priva di fondamento), ora porta sullo schermo la parabola dell’uomo (solo man, senza show) che, dati oggettivi alla mano, è stato il più grande artista solista del Regno Unito.
The Greatest Showman (2017) era una fake news, Better Man è cronaca. La grandezza, nel primo musical, veniva espressa con infantili (seppur coerenti) esercizi di retorica cinematografica. Luci, colori, divi, melodie, effetti digitali: il circo di P.T. Barnum era la rappresentazione in copia carbone della fabbrica dei sogni di Hollywood, che prendeva forma attraverso un film laccato e talmente finto da non temere mai di mostrare la propria anima posticcia. L’ossessione per eccellere si intrecciava a doppia mandata con l’algoritmo dell’inclusione. Il baratro (artistico prima che umano) doveva essere raschiato perché solo così la risalita sarebbe stata possibile.
L’evoluzione di questo discorso è un progetto uguale ma opposto che racconta l’uomo, non tanto l’artista, che si basa sui dati biografici e che lavora meno di fantasia, che si concentra sul personaggio migliore, non su quello più grande. Eppure, così facendo, Gracey firma un cortocircuito che è l’essenza stessa di Better Man.
Il biopic dedicato a Robbie Williams prende le mosse dai più recenti successi di questo filone, su tutti Bohemian Rhapsody (2018) e Rocketman (2019), per compiere un passo successivo, un’evoluzione del genere. Per farlo, Gracey si accorge che in un mondo sempre teso al progresso, al successo, al next step ossessivo, la vera rivoluzione, l’atto imprevedibile e quindi scandalosamente avanguardistico è la regressione.
Così, Better Man si concentra sul meglio, non sulla grandezza. Racconta l’uomo, non l’artista. Prende per mano la vita di Robert Peter Williams, non tanto la carriera di Robbie, e si concentra sui suoi affetti, le sue delusioni, i suoi difetti e le sue paure, lasciando che la musica funga da colonna sonora per i momenti più significativi della sua vita e non viceversa. Ma soprattutto, è la regressione dell’immagine che al regista interessa indagare. Se il divismo sovraesposto dei social media impone un bombardamento iconografico basato sulla riconoscibilità, costruire il biopic su una star della scena musicale mascherandola sotto i panni di una scimmia dall’inizio alla fine del suo minutaggio è qualcosa di audace e anacronistico. L’immagine digitale di Better Man mente sapendo di mentire. Chiede al pubblico una complicità di sguardo propria della tecnica animata. Per credere a quanto raccontato, dobbiamo accettare l’irrealtà.
Il film si evolve quindi regredendo. Non solo perché l’ominide è l’antenato dell’essere umano. Non solo perché l’uomo viene prima dell’artista. Non solo perché il meglio è alla base della grandezza. Ma soprattutto perché è nelle immagini fittizie che si cela la verità. Se Rami Malek ha vinto il premio Oscar grazie a un’operazione camaleontica nei confronti di Freddie Mercury, in un film interamente basato su un climax di riproduzione fedele, in scala 1:1 di uno dei momenti più importanti per la carriera della band protagonista, Better Man alza di gran lunga l’asticella del discorso teorico accorgendosi di quanto ormai sia inutile creare uno spettacolo veritiero. Nasconde quindi il suo paladino dietro una maschera digitale e, come se non bastasse, si permette di mentire spudoratamente anche sulle immagini maggiormente conosciute (per non parlare della cronologia degli eventi o della genesi dei brani di maggior successo).
Il fotorealismo contemporaneo, che ci permette di appassionarci alla storia canterina di Williams senza che per mezzo secondo lo scetticismo di assistere alle movenze di una scimmia possano scalfire la nostra credulità, conduce la narrazione su un altro campo da gioco. Così, dopo aver ricalcato i medesimi fotogrammi dello show al Knebworth Park (come fu per lo stadio di Wembley in Bohemian Rhapsody), il palco diventa una battaglia sanguinolenta; mentre durante il finale di My Way alla Royal Albert Hall (sequenza che, come si può vedere integralmente su YouTube, si apre di nuovo in maniera millimetrica con quanto accaduto per davvero) il padre del nostro sale sul palco per unirsi al figlio. Tutto finto, tutto falso, ma tutto verissimo. Più vero perché migliore. Più vero, perché più umano. Better. Man.
La storia dell'ascesa fulminante, della drammatica caduta e della straordinaria rinascita della superstar del pop britannico Robbie Williams.