La scrittura. L’immaginazione. Il mistero. Il caos. Ma anche la solitudine, la rabbia, le incomprensioni fra generazioni, le differenze di classe, la campagna pressoché disabitata, gli echi della Corea del Nord che arrivano da non troppo lontano. È denso, densissimo, complesso e affascinante Burning - L'amore che brucia, il film di Lee Chang-dong ispirato al racconto Granai incendiati di Murakami. Tutto ribolle, cova sotto la cenere, cresce e si cheta, si alza e si riabbassa, imprimendo un movimento oscillatorio che lavora su un senso di inquietudine pervasivo e continuo (che chiama in causa esplicitamente Faulkner ancora più che Murakami).
È una questione di ritmo. Il ritmo della narrazione prima di tutto, come è logico per un regista che nasce scrittore e lavora su un soggetto tratto da uno scrittore che nasce musicista. Il ritmo che caratterizza il racconto breve come forma letteraria fatta di piccoli indizi disseminati rapidamente, non approfonditi ma sufficienti a creare nel lettore la suggestione icastica necessaria al godimento della brevità narrativa. E poi la rielaborazione che di questo ritmo fanno Lee Chang-dong e il suo co-sceneggiatore Oh Jung-Mi: una dilatazione quasi paradossale (un racconto brevissimo diventa due ore e mezza di film) che ne estremizza la natura, anche grazie a una sublime partitura musicale che lavora sulle immagini con le sottolineature emotive di una sonorizzazione.
Il ritmo di una storia fatta di nulla, in cui gli elementi che vanno a costruirne l’ossatura sono una serie di misteri di cui non si può venire a capo. "Per me il mondo è un mistero", dice Joungsu. Per questo cerca una storia da scrivere, per provare a dare un senso alle cose, a dargli un ritmo. Ce l’avrebbe già il soggetto: la vita di un padre in collera, un uomo abbandonato dalla moglie con un figlio piccolo, un contadino orgoglioso e incapace di piegarsi al mutare delle cose. Ma non è quello che gli interessa. Deve trovare la “sua” storia, quella che sembra non riuscire a immaginare, bloccato da una sorta di apatia che lo fa camminare come se fosse sul punto di cadere e gli dipinge sul volto un’espressione impassibile e allocchita.
Quando nella sua vita irrompono prima la sconclusionata Heaemi e poi il ricco e misterioso Ben le cose però cambiano. Jongsu crede infatti di aver trovato la sua storia quando Ben, che sorride sempre e cerca di divertirsi in ogni occasione (anche se Jongsu lo sorprende per due volte in due minuscoli straordinari momenti del film mentre sbadiglia sopraffatto dalla noia), gli racconta, forse inventandoselo, che per passatempo brucia le serre abbandonate. Ma lo fa una volta ogni due mesi, perché alle cose bisogna dare un ritmo. Jongsu comincia allora a ridestarsi dal suo torpore e - senza saperlo – prende a vivere (o a immaginare?) la “sua” storia prima ancora di scriverla.
Non risolve i misteri, non trova risposte: è veramente sua madre a telefonare senza parlare? Dove è finita Haemi? È mai esistito il suo gatto? Ben ha bruciato la serra vicina alla sua catapecchia? Eppure trova il ritmo della sua esistenza, o almeno del suo racconto. Comincia a scrivere seduto al tavolo di una camera (la sua? quella della ragazza?) in cui tutto è in ordine. La macchina da presa si allontana chiudendolo dentro al quadro preciso e composto di una finestra che dall’altro sovrasta il caos della città. Perché non c’è nulla di più cinematografico che mettere in forma il “proprio” reale.
Durante una consegna il fattorino Jongsu s’imbatte in Haemi, una ragazza del suo quartiere conosciuta tempo prima. Haemi sta partendo per l’Africa e chiede a Jongsu di prendersi cura del suo gatto. Tempo dopo, al suo ritorno, Haemi presenta all’amico Ben, un uomo misterioso che ha incontrato durante il viaggio. Chi è Ben? L’amante di Haemi? Un psicopatico che ama appiccare il fuoco ai granai? Una creazione della mente di Jongsu, che segretamente ancora sogna di diventare scrittore?