Jean-Baptiste Durand

Chien de la casse

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«“Chien de la casse” (cane dello sfascio) è un’espressione che viene dai quartieri di periferia, e in più c’è la metafora del cane, perché l’amicizia che unisce questi ragazzi mi ricordava la relazione padrone-cane, un rapporto dominante/dominato ma anche un amore indefettibile, un coraggio e una fedeltà al limite dell’assurdo. Il “cane dello sfascio” è colui che fa le cose per sé, malgrado i suoi amici. Ogni “cane dello sfascio” crede che gli altri siano “cani dello sfascio”», ha dichiarato il regista Jean-Baptiste Durand a proposito del titolo del suo primo lungometraggio, Chien de la casse (2023), uscito in sala in versione originale sottotitolata e premiato con due César, uno dei quali alla migliore opera prima.

Il film è infatti, innanzitutto, questo: il tratteggio di una relazione amicale morbosa e squilibrata, in cui il ragazzo più sfrontato, Antoine chiamato Miralès per il suo cognome, decide le sorti (anche quotidiane) di Damien, detto Dog, come il cane di Antoine che invece un nome ce l’ha, Malabar; e in cui questi lo lascia fare, per affetto ma anche per noia, abitudine, passività. Perché è sempre stato così. Perché va bene così, nella dinamica che si è creata tra di loro (forse solo in apparenza, come scopriamo alla fine). Perché in un piccolo paese (il film è ambientato a Le Pouget, un borgo del Sud della Francia) è così, le cose sono più o meno sempre uguali, ognuno ha il proprio ruolo che è quello, e quello rimane. Il problema sorge con l’arrivo di Elsa, una ragazza bretone che dovrà passare un mese lì e che fa innamorare di sé Damien: Antoine non riesce a sopportarlo e diventa, appunto, insopportabile, aggredendo verbalmente l’amico, facendolo sfigurare di fronte agli altri, tentando di interporsi tra lui e la ragazza e, nel momento in cui capisce che non ci riesce, ritirandosi dalla situazione e anche dall’amicizia, salvo recuperarla – dopo una meravigliosa scena in cui prova maldestramente a parlare con l’amico, portandolo fuori dal paese - nel momento in cui Damien ha davvero bisogno di lui, perché l’amicizia c’è e nel finale, forse un po’ convenzionale rispetto a quella che è stata l’originalità dirompente del resto dell’opera, questa si rinsalda tutta, anche a costo di un sacrificio imprevisto. È in quel momento che capiamo le ragioni del comportamento di Antoine e nella distanza dell’epilogo, quando entrambi i personaggi avranno compiuto un percorso di individuazione e di crescita che avrà comportato l’inevitabile (e salutare) distacco, le capirà meglio anche Damien, che si rappacificherà con lui. 

L’interesse maggiore del film risiede in questo, nel percorso che i personaggi compiono e non a caso il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, nel designare Chien de la casse “Film della Critica”, ha espresso la motivazione seguente: «Un’opera d’esordio aspra e sapiente, piccolo gioiello di scrittura e direzione di giovani attori. Un coming of age ambientato nel sud della Francia, dove adolescenti abbandonati ai loro necessari tormenti cercano, attraverso l’amicizia e l’amore, un posto nella vita»; motivazione in cui vengono sottolineate anche la sceneggiatura solida e la direzione degli attori che sono Anthony Bajon (Damien), Raphaël Quenard (Antoine) e Galatéa Bellugi (Elsa), uno più bravo dell’altro (ma forse di più Quenard, lo Yannick del film omonimo di Dupieux, che ha ricevuto il secondo dei César ottenuti dall’opera). Al di là di questo, il film è degno di attenzione perché traccia un ritratto molto realistico della provincia francese, la stessa in cui il regista è cresciuto, un luogo in cui i giovani non hanno prospettive se non spostandosi, “andando in città”, altrimenti passano il tempo a bere e fumare sempre negli stessi luoghi (la piazzetta), facendo gli stessi discorsi sugli stessi argomenti e “buttando” le loro vite anche quando avrebbero, come Antoine, le risorse per fare qualcosa di diverso; il film non a caso si apre con un’immagine notturna del borgo, a inquadratura fissa e lunga su cui si innesta, ad un certo punto, il suono di un violoncello. Il regista fa anche di più: ritrae, come si diceva, la realtà dei piccoli borghi, della provincia francese o anche, se vogliamo, della campagna (il luogo in cui i due amici si recano a camminare con il cane, e in cui poi lo seppelliscono), collocando in essa una gioventù che sembra tratta da un film di banlieue. 

    

Per finire c’è la componente teatrale, che ha a che fare sia con l’elemento tragico che tocca tangenzialmente l’opera, sia con lo stile di regia: se in alcune scene i personaggi sono ripresi da vicino come in tanto cinema psicologico francese, con primi piani che consentono di cogliere i loro sentimenti più profondi, in altre scene la camera è fissa e si tiene distante dai personaggi, alla “giusta distanza”, quella che serve per inquadrarli (rispettosamente) nel contesto che è funzionale, in quel momento, alla narrazione. Per cui il film è a tratti caldo, anche irritante quando “entra” nelle dinamiche psicologiche distorte dei protagonisti, e a tratti freddo, a mostrare il loro ambiente di riferimento. Quello che li ha portati a essere quello che sono.


    

Chien de la casse
Francia, 2023, 93'
Titolo originale:
id.
Regia:
Jean-Baptiste Durand
Sceneggiatura:
Jean-Baptiste Durand, Nicolas Fleureau, Emma Benestan
Fotografia:
Benoît Jaoul
Montaggio:
Perrine Bekaert
Musica:
Delphine Malaussena, Hugo Rossi
Cast:
Anthony Bajon, Raphaël Quenard, Galatea Bellugi, Dominique Reymond, Bernard Blancan, Nathan Le Graciet, Mélanie Martinez, Mike Reilles, Mathieu Amilien
Produzione:
Insolence Productions
Distribuzione:
No.Mad Entertainment

In un piccolo villaggio del sud della Francia, Dog e Mirales vivono un'amicizia conflittuale. Il duo viene sconvolto dall'arrivo nel villaggio di Elsa, una giovane donna di cui Dog si innamorerà.

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