Dopo aver poetato La terra vista del cielo (2004) e gli effetti catastrofici del riscaldamento globale in Home (2009), Yann Arthus-Bertrand dirige il suo «film della vita», un testamento monstre dalla durata di 263ʹ in cui si intervistano oltre 2000 persone in 65 lingue differenti.
Si tratta di un lavoro prezioso e intenso, che prova a mettere a fuoco i problemi, le sofferenze, le contraddizioni, ma anche le qualità e le potenzialità tutt’oggi inascoltate dell’essere umano. Il film si struttura in una lunga serie di interviste, nelle quali persone provenienti da culture e Paesi differenti (sempre riprese in primo piano e davanti a un drappo nero) rispondono a domande come: “Che cos’è l’amore?”, “Cosa significa essere poveri?”, “Qual è il senso della tua vita?”
Ciò che emerge è un collage emotivo, esistenziale, in cui nelle rughe, negli occhi, nelle espressioni di ogni donna e uomo si scorge una luce, un significato profondo finora taciuto, che rischiara non solo la vita della persona intervistata ma anche quella dello spettatore. Si tratta di un dialogo vis-à-vis, grazie al quale il tempo dell’altro, dello sconosciuto, del diverso, dell’in-colto si trasforma in un dialogo metafisico che inaugura una relazione non più dominata da logiche di potere e dominio, bensì di prossimità e comunanza.
Sull’esempio letterario dell’Ulisse di Joyce, potremmo definire Human un "film-corpo". Esso rappresenta una sorta di memoria somatica della separazione in quanto restituisce all’umanità una corporeità emotiva frammentata, divisa, composta da modi di vita e di pensiero apparentemente antitetici tra loro che, in verità, costituiscono gli organi di uno stesso corpo, di un medesimo orizzonte.
Nonostante Bertrand mostri come le disuguaglianze sociali, culturali e ambientali conducano inevitabilmente a conclusioni diverse sui grandi temi dell’esistenza, ciò che accomuna tanto i protagonisti del film quanto lo spettatore sono le tonalità emotive, i sentimenti e l’esistenza stessa. Per questo motivo Human è un film-corpo, un lavoro monumentale sulla complessità, sull’eterogeneità, sulla disuguaglianza che ogni nazione, ogni comunità e ogni persona rappresenta, ma anche sulla completezza emozionale e intellettuale: con lo scorrere dei minuti si comprende come Bertrand intenda dar voce all’umanità intera, con particolare attenzione a tutte quelle persone estranee al Primo Mondo, al di fuori dai confini eurocentrici, le cui urla arrivano ovattate e spente ai ricchi «leader del Mondo», come ricorda con veemenza un’anziana donna indiana.
In questi termini Human rivela la proprio essenza politica. Yann Arthus-Bertrand non dirige un film in modo politico, ma compie un gesto politico realizzando ciò che i greci chiamavano phronesis (saggezza, assennatezza), la massima qualità, appunto, del politico. Vale a dire l’abilità di vedere e mostrare le cose non unicamente dal proprio punto di vista, ma attraverso gli occhi e i vissuti altrui; solo conoscendo e accettando il mondo quale pluralità è possibile agire politicamente in quanto si terrà conto di tutti i possibili sguardi.
Complice l'alternanza fra interviste e maestosi paesaggi naturali, sempre sostenuti dalle musiche del compositore Armand Amar, Bertrand realizza un film sull’umanità, attraverso lo sguardo eterogeneo di migliaia di persone che non solo commuove, nella sua accezione più sincera e cristallina, ma eleva il pensiero emotivo al di sopra di ogni colore, cultura o nazione.
Dopotutto, come scrisse un grandissimo poeta tedesco, «pieno di merito, ma poeticamente abita l’uomo su questa terra» e in questo lavoro, ci sembra il caso di dirlo, la poesia dell’umanità trascende ogni sterile tentativo di critica.
Tra storie, volti e luoghi, un’immersione negli angoli più profondi dell’essere umano. Tra storie d'amore, di odio, di guerra e di sofferenza, un film sull'incontro e lo scontro con l'altro. Immagini aeree mai viste prima, bellezza da riscoprire e rivelare: la Terra si racconta in tutta la sua complessità, trovando nel volto umano il paesaggio più bello e misterioso.