Quello dei Manetti Bros. non è un film su Diabolik o un film con Diabolik ma è, molto semplicemente, il film Diabolik. Ed è su questo dettaglio apparentemente scontato, ma a conti fatti assolutamente cruciale, che poggia l’intera operazione.
Diabolik è un film che recupera e rende tangibili quell’estetica minimalista anni ’60, quel tipo di linguaggio, di stilemi e di dialoghi che il fumetto creato dalle sorelle Giussani si porta dietro fin dai primi albi. Lo fa con un’aderenza, una fedeltà e un rispetto pressoché totali nei confronti dell’opera originale. A Marco e Antonio Manetti non interessava minimamente utilizzare il personaggio Diabolik per aggiornarlo e trasformarlo in una versione italiana del cinecomic americano in stile Marvel, quanto piuttosto restituire allo spettatore lo spirito e l’emozione che quel determinato fumetto è riuscito a trasmettergli negli anni. In questo senso il film mette le cose in chiaro fin dall’inseguimento con cui si apre, e non si tradisce mai.
L’interesse nei confronti di un’operazione di questo tipo passa per forza di cose anche dalla sua capacità nell’ampliare il ventaglio di possibilità del cinecomic, uscendo totalmente da quell’idea ipercinetica, supereroistica e d’azione vorticosa con cui la Marvel ha monopolizzato l’immaginario collettivo negli ultimi anni. Di certo Diabolik non vuole mettersi a sfidare Spiderman, ma semplicemente evidenziare che può e deve esistere anche dell’altro. E nonostante la ricerca di un certo tipo di staticità dell’azione, di dialoghi poco “cinematografici” e contemporanei, di una tangibilità degli ambienti e degli oggetti contrapposta all’apoteosi di effetti speciali sempre più onnipresenti, non ha probabilmente nemmeno senso parlare di anti-cinecomic.
Perché di fatto il Diabolik film vuole guardare solo ed esclusivamente a Diabolik fumetto e a null’altro, chiamandosi fuori da ogni tipo di possibile confronto se non con se stesso. E nell’essere assolutamente consapevole di ciò, il film dei Manetti lavora sugli ambienti e sugli spazi in modo davvero impeccabile, dando la costante impressione che sia realmente possibile passeggiare per le vie di Clerville e di Ghenf o visitare i nascondigli segreti del genio del crimine.
Eppure forse una delle caratteristiche più sorprendenti di questo film è che, sebbene si tratti di un’operazione così aderente a un personaggio e a un universo narrativo scolpiti nell’immaginario collettivo, riesce comunque a essere un’opera assolutamente coerente con il cinema dei suoi autori, sia esteticamente che tematicamente. È quasi scontato dire che per quanto uno provi a essere fedele a qualcosa di preesistente finisca per rielaborarlo (anche involontariamente o inconsapevolmente) secondo la propria soggettività. In questo caso però verrebbe da dire che i Manetti abbiano lavorato talmente tanto durante la loro carriera sul linguaggio del fumetto da essere riusciti a interiorizzare nel modo più naturale e spontaneo possibile un modo di raccontare le storie che con il linguaggio del fumetto Diabolik si sposa alla perfezione. Resta però un’opera autoriale per certi versi estrema, che richiede allo spettatore la fiducia di lasciarsi catapultare in un universo forse apparentemente straniante e respingente, ma che, con il giusto approccio si rivela incredibilmente affascinante e più efficace di un coltello lanciato dal Re del Terrore.
La storia oscura e romantica dell’incontro tra Diabolik ed Eva Kant, ambientata nello stato di Clerville alla fine degli anni ‘60. A dargli la caccia, e a cercare di fermare i loro diabolici piani, l’ispettore Ginko.