Adam McKay

Don't Look Up

film review top image

Che cos’è in realtà Don’t Look Up, oltre a essere una produzione Netflix approdata nelle sale qualche settimana prima del rilascio sulla piattaforma (dal 24 dicembre)? Sicuramente un film dal cast stellare (ops!), condito da ben cinque premi Oscar (DiCaprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Cate Blanchett e Mark Rylance), da due candidati (Timothée Chalamet e Jonah Hill) e da una star del pop internazionale (Ariana Grande), anche se qualcuno dei nomi citati, in questo caso, sembra fare di tutto per dissimulare la sua enorme statura d’attore. È poi anche, perlomeno allo stato larvale delle intenzioni, una satira su un mondo alla deriva, sottomesso alla schiavitù di un universo mediatico che alternativamente atterra e suscita, che affanna per poi distruggere definitivamente, rendendo quasi legittima e necessaria la tesi palingenetica dell’estinzione per una nuova rinascita.

Don’t Look Up è quindi soprattutto un perfetto esempio di wanna be masterpiece realizzato da un regista, autore anche della sceneggiatura, che ha grande immaginazione visiva, apprezzabile talento narrativo ma non sempre la misura adeguata. La vicenda, sulla base di eventi realmente possibili, come recita la frase di lancio del film, narra di due astronomi di un’università statale, due outsider per definizione, che balzano loro malgrado agli onori delle cronache perché scoprono il pericolo rappresentato da un asteroide, dal diametro oscillante tra i cinque e i dieci chilometri, più o meno quindi grande come l’Everest, in grado di distruggere in un amen la Terra, se è vero che l’asteroide responsabile dell’estinzione dei dinosauri fosse sensibilmente più piccolo.

Quello che nasce come un possibile disaster movie blandito da toni leggeri (a dispetto di una soluzione per deviare l’asteroide che ricorda fin troppo da vicino Armageddon condotta da un personaggio, interpretato da Ron Perlman, che pare uscito direttamente dal Dottor Stranamore) si trasforma sulla base delle reazioni che la notizia provoca, in un orrido caravanserraglio pronto a rivelare con accenti gridati uno stato di alterazione totale che non è altro che lo stato dell’arte (americana, ma ovviamente non solo) in cui è caduta l’umanità. In virtù del principio che alla calata dei barbari sul basso impero segue necessariamente un periodo di oscurità, qua portato alle estreme conseguenze, McKay allegorizza esplicitamente la fine. La sua è l’apocalisse dovuta a un asteroide, sicuramente più spettacolare e debitrice di esempi cinematografici illustri, ma potrebbe benissimo essere la pandemia da Covid-19 o l’emergenza climatica ignorata dai governi di ogni latitudine. La fine per McKay è semplicemente funzionale a ciò che ne riempie l’attesa e in qualche modo la giustifica, sta tutto nel «bla bla bla» evocato da Greta Thunberg, diffuso immediatamente a strascico, diventato in pochi secondi meme e proprio per questo svuotato della sua forza propulsiva e di critica al sistema globale.

In Don’t Look Up ci si trova in una situazione ancora più paradossale rispetto alla negazione dell’emergenza, perché si osserva invece la sua banalizzazione, in ogni singolo aspetto della società, dalle istituzioni, sorde e interessate unicamente al proprio tornaconto, alle multinazionali, implacabili e alienate da sembrare quasi un ologramma persistente, alla società dello spettacolo, immobilizzata in una mediocrità aperta all’esterno solo in termini di share e di gradimento sui social media. A questa mostruosità del ridicolo rispetto alle cause ultime, McKay oppone quasi diametralmente l’intimità di un percorso accidentato dell’anima che passa dal rifiuto (di Kate Dibiasky/Jennifer Lawrence), al pentimento (Randall Mindy/Leonardo DiCaprio) per giungere alla remissiva, quasi filosofica attesa (quella della famiglia del dottor Mindy, al cui sobrio tavolo, non a caso, si riuniscono i protagonisti in vista dell’impatto).

Il messaggio di McKay è forte e chiaro, sicuramente fin troppo. Il suo problema non è il pessimismo cosmico (nel vero senso della parola) rispetto allo sgretolamento del pensiero collettivo e delle sue manifestazioni visibili, pardon: visualizzabili, quanto il modo stridulo, troppe volte farsesco e goffo utilizzato per raggiungere l’obiettivo. In Don’t Look Up McKay mostra entrambi i lati di una carriera bipolare, capace di spettacolarizzare la materia drammatica sintetizzandola attraverso uno stile pulsante, dinamico e stimolante (spesso anche grazie all’utilizzo di espedienti grafici ipertestuali e irresistibilmente ironici), come in La grande scommessa e Vice – L’uomo nell’ombra, ma allo stesso tempo responsabile in altri momenti (i due Anchorman, Ricky Bobby e Fratellastri a 40 anni) di una comicità greve e demenziale, spesso innocua e caricaturale, a dispetto della sua formazione nel Saturday Night Live. È quest’ultimo aspetto a prevalere per lunghi tratti in Don’t Look Up e a fare scambiare un premio Oscar per una macchietta pessimamente diretta, nonostante DiCaprio offra una performance versatile, in grado di rendere credibili la sua paura per l’umanità e il suo dissidio interno.

Meryl Streep, invece, la cui immagine presidenziale, pur alludendo inevitabilmente a Trump (ma anche a personaggi dalla vacua inettitudine come la triste Marjorie Taylor Greene), incarna il potere tout-court (nel suo ufficio compare, tra le altre, una foto incorniciata che la vede raggiante in compagnia di Clinton), sorprende per la caratterizzazione risibile che la rende totalmente evanescente, priva di qualunque spessore per poter rappresentare un autentico ostacolo all’assunzione della verità scientifica. Così come altrettanto sciocco e insignificante è il guru della tecnologia Peter Isherwell, interpretato con un occhio a Elon Musk e l’altro alla Apple da Mark Rylance, al punto da indurre a pensare che probabilmente la farsa abbia eroso i nobili territori della satira come un qualunque Bagaglino dei tempi che furono. Sono questi i momenti in cui s’ingenera seriamente il dubbio che il tentativo di denuncia della banalizzazione sia parte di quello stesso universo che intende colpire, come se l’asteroide giunto catarticamente ad annientare la Terra alla fine non rappresenti altro che un suicidio rituale in cui tutta l’umanità firma la sua definitiva resa.


 

Don't Look Up
Usa, 2021, 145'
Titolo originale:
Don't Look Up
Regia:
Adam McKay
Sceneggiatura:
Adam McKay, David Sirota
Fotografia:
Linus Sandgren
Montaggio:
Hank Corwin
Musica:
Nicholas Britell
Cast:
Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Jonah Hill, Cate Blanchett, Meryl Streep, Mark Rylance, Timothée Chalamet, Matthew Perry, Rob Morgan
Produzione:
Bluegrass Films, Hyperobject Industries
Distribuzione:
Netflix, Lucky Red

La dottoranda in astrofisica Kate Dibiasky e il suo docente all'Università del Michigan Dr. Randall Mindy scoprono che entro sei mesi una gigantesca cometa colpirà la Terra e provocherà l'estinzione del genere umano. Allarmati riferiscono tutto alla Presidente degli Stati Uniti Janie Orlean, ma dopo essere stati snobbati e umiliati dall'amministrazione si rivolgono alla stampa e alla televisione: è l'inizio di un assurdo circo mediatico che coinvolgerà gli stessi scienziati e finirà per generare uno scontro ideologico tra allarmisti e negazionisti, ribelli e militanti filo-governativi, in un mare indistinto di dirette tv, post, tweet, reazioni social, prese in giro, opinioni a casaccio, sondaggi di gradimento, interessi delle oligarchie, calcoli scientifici non verificati, ignoranza al potere e stupidità collettiva che finisce per rendere quasi secondario l'arrivo della gigantesca cometa...

poster