Niko è un ventisettenne nullafacente che si lascia vivere nella Berlino di oggi. Ha una fidanzata, ha abbandonato gli studi senza comunicarlo al padre sulle cui spalle continua a campare, conduce i suoi riti quotidiani senza entusiasmi e senza tristezze, quasi rasserenato dalla sua accidia esistenziale. In un giorno, uguale a tanti altri, la vita gli si rivolta contro. La sua ragazza lo lascia, uno psicologo sadico lo umilia per il gusto di farlo (e gli nega il rinnovo della patente), il padre scopre che ha lasciato l’università e gli taglia i fondi. Il suo mondo, ripetitivo ma innocuo, sembra vacillare suscitando in lui un fatalismo rassegnato più che un fremito di orgoglioso riscatto.
Oh Boy – Un caffè a Berlino, opera prima del tedesco Jan Ole Genster, traccia un ritratto affettuoso (ostentatamente empatico e indulgente) di un figlio dei nostri tempi, cullato nell’inazione, disabituato al fare, inconsapevole del futuro e raggomitolato in un presente fatto di gesti ripetuti e minuscole gratificazioni. Mentre la sua vita si frantuma il suo unico desiderio è quello un buon caffè. Il suo atteggiamento è specchio di un egotismo infantile: mai arrabbiato spesso sbigottito perennemente inadatto. Niko è destinato a diventare un uomo senza qualità, privato di colpe e ambizioni, sperso in un mondo percepito con definitiva e molle estraneità.
Il limite di Oh Boy sta nella sua programmatica superficialità, nella monolitica rappresentazione di un vissuto messo in scena solo attraverso esperienze meccaniche, nella smaccata imitazione di modelli preconfezionati (il bianco e nero, la colonna sonora swing, la ricerca della bizzarria a ogni costo, i sentori della Nouvelle Vague, i woodyallenismi ostentati, lo schematico spirito indie).
Apparentemente lieve, Oh Boy si incapriccia a codificare un messaggio generazionale prendendosi fin troppo sul serio fino ad assumere un tono di stralunata presunzione. Niko è un personaggio artificioso – incapace di interagire col mondo e spettatore attonito delle stranezze umane che lo circondano – che non riesce a costruirsi una sua dimensione autonoma (a differenza di Frances Ha, la protagonista dell’ultimo film di Noah Baumbach che, con prepotente vitalità, ribalta gli stessi canoni raggiungendo un’ispirata originalità e una mirabile libertà espressiva) e che si arena, placidamente, in una smaccata metafora della pigra alienazione metropolitana che non evita il compiacimento di maniera.
Il film racconta una giornata berlinese del giovane protagonista Niko Fischer. Lo seguiamo, per ventiquattro ore, nel suo girovagare vano, per le strade di una Berlino popolatissima, alla disperata ricerca di un caffè. Il poco più che ventenne Niko ha da poco abbandonato l'università ed è obbligato a confrontarsi, durante la sua lunga giornata berlinese, con le conseguenze della sua inerzia. La sua ragazza mette fine alla loro relazione, suo padre smette di passargli soldi e uno psicologo, da cui è convocato per una denuncia per guida in stato di ebbrezza, conferma il suo "squilibrio emotivo" sospendendogli la patente. Ma tutto ciò che Niko desidera, è una tazza di caffè decente.