Non vorrei che sui film di Tarsem Singh avessimo tutti (chi scrive compreso) sbagliato prospettiva. Insistito su qualcosa di evidente, eppure non la più importante.
Trovatemi chi non abbia esaltato nel corso degli anni il coté estetico-visionario del regista di origini indiane. Chi non si sia fermato a quello, sezionandolo, mettendolo al microscopio, guardandolo con sguardo strabiliato ma insieme diffidente, a tal punto che buona parte della critica, dall’esordio fino a Biancaneve, non ha fatto altro che rivelarne l’apparente vacuità tutta di superficie, tanto bella e lucida e inventiva fuori, fra costumi kitsch e effetti digitali, quanto povera e banale e di riporto sotto. Non mi interessa controbattere al riguardo. Ma questo suo quinto lungometraggio mi ha dapprincipio perplesso, e poi acceso una lampadina.
Perché di fronte a Self/less, ammesso che si voglia ipotizzare un discorso autoriale, tutto l’abracadabra decorativo di Singh viene meno (per i fan, non ci sono manco i costumi di Eiko Ishioka), mentre risalta ciò che credo fino ad oggi sia rimasto coperto, addobbato, in abito da festa, coi tacchi alti e con un trucco marcato. Come a dire, finalmente Tarsem Singh è nudo, svestito, all’osso: Self/less è un B-movie come adesso a Hollywood è difficilissimo fare (e anche pensare), proprio come tutti i suoi film non sono nient’altro che B-movie in ghingheri.
Giù la maschera: questo è il vero immaginario di Singh, un bacino di trovarobato a prezzo abbordabile, che scavalca il genere puro (aderendovi comunque: ogni prova è una prova di genere “scadente”, dall’horror con pretese psicologiche di The Cell al peplum pieno di turgori e latenze di Immortals) per rendersi ideologia. Un corpus da B-movie in cui il materiale è più ordinario (rispetto alla cosiddetta produzione di serie A), i personaggi stereotipati e preferibilmente bidimensionali, gli eventi prevedibili, la morale facile. Nondimeno un corpus che diverte (e seduce) esattamente per la sua riduzione, per la sua proporzione dal basso, per la capacità di lavorare al riparo dal postmoderno, e non confortato dallo stesso. Insomma, Singh sarebbe in questo contesto l’erede di un artigianato ormai impossibile, dentro e fuori dal sistema.
Prendete Self/less, per l’appunto. Che è un poliziesco in indumento da fantasociologia psico-umanistica, quasi un Operazione diabolica in miniatura, dove tutto è giocato un po’ al risparmio, dalla confezione (abbastanza anonima e tradizionale) agli interpreti, e in cui dinamiche, personaggi e sorprese fanno spesso a pugni col buon senso (oltre che con il buon cinema grande e grosso hollywoodiano). Tuttavia, come un vero B-movie (gli sceneggiatori David e Àlex Pastor, difatti, vengono da lì), come un Peter Hyams anni ’80 (benché molto meno elegante), o un Eric Red resuscitato (la scena nella casa di campagna ricorda Le strade della paura, mentre il sorprendente confronto finale pare stare fra No control – Fuori controllo e Perimetro di paura), o, più indietro, come un Arthur Crabtree o un Curt Siodmak in pieno vigore horror-sci-fi, Self/less riesce dove per esempio Jaume Collet-Serra coi suoi action fallisce, lo sconto sul “prezzo originale”, sulla matrice del prodotto, sul modello, operando davvero in minore, dietro il bancone e non davanti, con una deferenza a testa china da indomito raccontatore di storie.
Se provate a rivedere oggi The Cell, al netto di tutto il clamore visivo-ornamentale dell’epoca, vi troverete davanti precisamente a questo, un perfetto B-movie di misto-generi in cui il bisogno di narrare una storia prevale sul come e sui mezzi, e il bisogno di fare (del) cinema vince sul bon ton e, perché no, sul galateo industriali.
Pier Maria Bocchi
Se solo potessi vivere più tempo… Chi di noi non l’ha mai detto o pensato? Ma se potessimo veramente avere più tempo, quale prezzo saremmo disposti a pagare? Nel thriller psicologico sci-fi Self/less, il regista Tarsem Singh porta alle estreme conseguenze il desiderio di immortalità. L’industriale ultramilionario Damian Hale (interpretato dall’attore premio Oscar Ben Kingsley) è sempre stato al centro del proprio universo, maestro nell’arte del potere dai suoi uffici di New York. Allontanato dalla figlia Claire, convinta attivista (interpretata dall’attrice Michelle Dockery già nota per Downton Abbey), l’unica persona che tiene ancora Damian connesso al mondo reale è Martin O’Neil, suo amico di sempre e suo braccio destro (Victor Garber). Di fronte alla diagnosi di un tumore, però, Damian decide di sottoporsi a una terapia medica radicale di eliminazione del virus, lo “shedding” che porterà indietro le lancette della sua vita. La terapia gli viene somministrata da Albright (il Matthew Goode di The Good Wife), brillante capo di un’organizzazione segreta al servizio dei più facoltosi. Damian coglie l’opportunità che gli viene offerta e mette in scena una finta morte per coprire quello che in realtà è solo uno “shedding”. La sua coscienza si trasferisce nel corpo di un uomo in piena salute (Ryan Reynolds) e molto più giovane di lui...