Il nuovo film di Sam Mendes, con una Olivia Colman impeccabile (ma anche un po’ prevedibile) nel dar corpo alla fragile e scossa Hilary, è un monumento alla nostalgia del cinema in pellicola, alla retorica della grana, dell’odore, della materia delle immagini, alla rumorosa poesia della cabina di proiezione, al rito della condivisione, all’esperienza, alla magia del cinema. Eppure, manca una cosa fondamentale per un film che vuole essere un mélo malinconico e sentimentale: l’anima.
Quella di Mendes è infatti una macchina perfettamente congegnata con una sceneggiatura ambiziosa che vuole calare il dramma personale di una donna alle prese con un serio bipolarismo e quello di un ragazzo di colore nella razzista provincia inglese dei primi anni Ottanta, dentro al desiderio di restituire non solo un’atmosfera politica e sociale ma anche culturale e immaginaria. I temibili skinhead vanno allora di pari passo con le poesie programmaticamente inserite a dare il tempo al racconto (da Tennyson ad Auden per arrivare a Larkin nel finale), e il desiderio di far stare insieme la contestualizzazione storica con il canto elegiaco in memoria dell’immagine analogica passa per le citazioni cinematografiche che prendono forma nel buio della sala o si insinuano attraverso le note delle colonne sonore in sottofondo. Ma non mancano altri riferimenti musicali che chiamano in causa il punk, lo ska e il rocksteady come espressione di una controcultura giovanile che cercava di opporsi all’austerity e al bigottismo perseguendo la strada dell’anarchia o tentando nella conciliazione di cultura bianca e nera l’identità per una nuova Inghilterra.
Tutto ci riporta dunque all’epoca della Thatcher, alle tensioni sociali, agli scontri, al razzismo, alla retrograda mentalità imperante e, parallelamente, all’inizio di quel processo di lenta decadenza dalla sala come luogo magico e rituale caratterizzato dalla monumentalità degli spazi e da una liturgia di gesti e di istanti. Tutto è perfetto nel ricostruire quel momento di passaggio, la scenografia fatta di spazi giganteschi, arredi, colori, dettagli, luci (e ombre) che restituiscono al contempo la grandiosità e la decadenza, la magnificenza e il suo smantellamento; insomma funziona tutto nel modo migliore, senza nemmeno il bisogno di chiamare in causa il cast di - si fa per dire - comprimari da Colin Firth a Toby Jones, dal giovane Micheal Ward a Tom Brooke.
Il problema è che però tutto sa di posticcio, di artefatto, di pretestuoso a cominciare proprio dalla svenevole retorica su quel “piccolo fascio di luce” che accende la magia. La nostalgia avvolge e soffoca l’urgenza di una riflessione profonda su ciò che il cinema è stato e non sarà mai più, e l’evidente bisogno di fare i conti con quello che non tornerà - ma che si sta trasformando in maniera prepotente e inarrestabile - si ferma sulla superficie di una malinconica affezione. Anche per questo fa un po’ sorridere, o stride, o forse è solo parte del paradosso, che tutto questo monumento all’impero della luce sia tradotto da Mendes in un digitale che più nitido e contemporaneo non si può, come se Empire of Light non fosse in fondo che il costosissimo gioco di un ragazzino che, cresciuto, riguarda al passato con la nostalgia un po’ sterile di chi non ha davvero intenzione di interrogarsi e si accontenta piuttosto del confortevole calore di una lacrima di commozione.
Inghilterra, anni 80. Hilary gestisce un cinema in una cittadina sulla costa meridionale, vive da sola e deve fare i conti con la sua salute mentale e la depressione, mentre intrattiene una relazione con il suo capo sposato. Stephen, un nuovo e giovane dipendente, sogna di fuggire da quella provincia dove è vittima di pregiudizi legati al colore della sua pelle. Sin da subito l'attrazione tra Hilary e Stephen è molto forte, e i due trovano un senso di appartenenza attraverso la loro dolce e improbabile relazione, sperimentando il potere curativo della musica, del cinema e della comunità.