L’esordio del guatemalteco Jayro Bustamante ha giustamente strappato applausi all’ultimo Festival di Berlino, oltreché un meritatissimo premio Alfred Bauer, assegnato a quelle opere in grado di aprire una nuova prospettiva nell’arte cinematografica.
Una pellicola ipnotica e complessa, che può vantare una sceneggiatura che fa della linearità un proprio punto di forza: la campesina Maria, che vive con il padre e la madre vicino a una piantagione di caffè, è costretta ad affrontare le tradizioni (e le conseguenti imposizioni) della sua arcaica cultura. Verrà così promessa in sposa a un benestante uomo locale, mentre resterà incinta da un giovane contadino fuggito negli States.
Vulcano è una favola antica, seppure ambientata ai giorni nostri, capace di mutare rapidamente in un orrorifico incubo rurale da cui fuggire è pressoché impossibile. Non il solito cinema terzomondista, bensì un esemplare debutto che nasce dall’acuto sguardo del proprio autore. I tentativi di aborto, l’insolubile legame tra la terra e i suoi abitanti e, infine, la folle corsa verso la città, sono i necessari passaggi di un percorso alla scoperta di una realtà antica che cerca di convivere con il progresso circostante.
Il regista colloca al centro della propria visione il vulcano, icona dell’ineluttabilità della natura e della potenza divina. Ed è proprio questa intuizione a rendere interessante il lungometraggio - nonostante svariati difetti, dovuti soprattutto all’inesperienza - non un banale documentario sulle tradizioni degli sperduti popoli guatemaltechi, bensì una parabola in cui una società proiettata verso il progresso deve obbligatoriamente fare i conti con la terra, da cui trae vitalità e dalla quale fatica a distaccarsi.
Lo stile di Bustamante è icastico, frutto di un lavoro di sottrazione rischioso ma nel contempo affascinante. La macchina da presa si muove poco, i personaggi infatti entrano ed escono dalla scena spesso senza mai essere assecondati nel loro movimento, così come i dialoghi (quasi interamente nell’incomprensibile lingua locale) sono ridotti all’osso. Il ritmo complessivo ne risente, ma ciò che permette di ignorare il difetto è il già maturo sguardo pittorico, con il quale il regista favorisce l’empatia.
Metafora della civiltà contemporanea, l’immensa bocca di fuoco è sempre presente ma mai completamente svelata, rumorosa e discreta, incalzante e lentissima, spaventosa e attraente. Un’entità dicotomica, perfetto simbolo dell’esistenza umana, divisa costantemente tra vita e morte.
Ambientato in Guatemala, nel cuore di comunità di etnia maya, Vulcano racconta un mondo sospeso tra credenze ancestrali ed echi lontani di modernità.