Frears «è un abilissimo narratore di storie, un grande affabulatore, uno che racconta personaggi e mondi facendoti entrare lì dentro con tutte le scarpe. […] Frears dà sempre l’impressione di non aver bazzicato altri ambienti di quelli che racconta». Queste parole di Federico Gironi valevano per The Program e valgono, più che mai, anche oggi, per Florence.
The Program ricostruiva la formidabile carriera del ciclista Lance Armstrong e l’ancor più formidabile truffa organizzata dall’atleta nei minimi dettagli per godere dei benefici del doping; Florence, invece, narra la vicenda di una ricca donna stonata e fermamente convinta di saper, e poter, cantare, senza che nessuno se la senta di metterla di fronte alla realtà: nonostante le differenze, però, quest’ultimo film ha molto da spartire con l’opera che lo precede.
Infatti, sebbene qui non ci si trovi sulle strade del Tour de France ma nell’alta borghesia della New York degli anni Quaranta, la storia narrata è la perfetta evoluzione di quella di Armstrong, o meglio, ne è il contraltare. Non si racconta di giovani ciclisti ma di anziane nobildonne; non di fiato e gambe ma di fiato e corde vocali. Accantonata la truffa sportiva premeditata, Frears oggi mette al centro un’ingenua passione obbligatoriamente mascherata.
Armstrong e Florence Foster Jankins hanno in comune un obiettivo da raggiungere, un sogno di gloria, di fama, di affermazione. In anni di piena crisi (morale, economica, identitaria), in cui la parola d’ordine è sopravvivenza, il primo ha messo da parte ogni scelta morale per primeggiare, a costo di ingannare tutti e lasciarsi logorare da un cinismo senza precedent; la seconda, invece, combatte per mantenere saldo il proprio sogno, l’illusione e la speranza, in un contesto fatto di persone o di semplice pubblico che le nasconde la verità e le permette di andare avanti.
Proprio per questo motivo, il vero protagonista del film (e il personaggio più riuscito e affascinante) non è la cantante stonata interpretata da Meryl Streep, ma il marito-manager interpreato da Hugh Grant, disposto a tutto pur di cullare il sogno della donna. Non si tratta di egoismo, in Florence, ma di altruismo. Non si imbroglia per danneggiare gli avversari, ma per proteggere la serenità del prossimo.
Frears adotta quindi una materia narrativa già sviluppata su altri fronti (il recente Marguerite di Xavier Giannoli prendeva dichiaratamente spunto proprio dalla figura di Florence Foster Jenkins per virare però il discorso su temi legati alla social media generation) cercando di farla sua e plasmandola su binari a lui più consoni. Il risultato non può dirsi sempre del tutto felice, ma sicuramente calzante e coerente per l’analisi di un presente complesso e sfuggevole che in pochi ormai hanno ancora la voglia di interrogare.
Nel 1944 l'ereditiera Florence Foster Jenkins è tra le protagoniste dei salotti dell'alta società newyorchese. Mecenate generosa, appassionata di musica classica, Florence, con l'aiuto del marito e manager, l'inglese St. Clair Bayfield, intrattiene l'élite cittadina con incredibili performance canore, di cui lei è ovviamente la star. Quando canta, quella che sente nella sua testa come una voce meravigliosa, è per chiunque l'ascolti orribilmente ridicola. Protetta dal marito, Florence non verrà mai a conoscenza di questa verità. Solo quando Florence deciderà di esibirsi in pubblico in un concerto alla Carnegie Hall, senza invitati controllati, St. Clair capirà di trovarsi di fronte alla più grande sfida della sua vita.