Preso in qualunque suo punto, anche a caso, Gasoline Rainbow fornisce un’impressione di libertà nella realizzazione e di freschezza nelle dinamiche del racconto, pur essendo attraversato longitudinalmente da una vena di problematica tristezza. Nella sua veste esteriore, in cui si trova piuttosto comodo, è un film di viaggio, perlomeno nella logica che fa compiere ai giovani protagonisti le 513 miglia che separano quel buco di culo nel mondo che è Wiley, Oregon, dalla costa del Pacifico, alla ricerca del mare che nelle adolescenze difficili, fin dai tempi di Antoine Doinel, fa sempre illusione di poetico approdo. In realtà, malgrado la sua scarsa ambizione, Gasoline Rainbow è qualcosa di più. È un ritratto della Z Generation senza alcun artificio e privo di ogni smania di comprenderne natura, aspirazioni e desideri (a precisa domanda, i fratelli Ross, i registi, hanno argutamente risposto che l’unica cosa che abbiano imparato da questa generazione di adolescenti è che sarebbe meglio non tentare di parlarne). Ed è la dimostrazione di una concezione di cinema che rielabora ideologie del passato, proprie dell’indipendenza americana tarda anni Sessanta, per proporre attraverso una confortante spontaneità uno sguardo immediato, quasi istintivo, sui soggetti, sul paesaggio, sulle dinamiche di relazione, su una prospettiva parziale di America in formazione che tuttavia presenta su di sé i guasti delle sue stesse insanabili contraddizioni.
Nonostante si tratti di un film incurante della struttura, Gasoline Rainbow si può incasellare tranquillamente nel filone del Road Movie. Appare quindi inevitabile il confronto tra i giovani protagonisti e il passato, in quel lustro (non di più) nel quale il ribellismo era proiettato all’esterno, a una società ritenuta oppressiva e in piena crisi di identità. Bill e Turner Ross sono nati nel riflusso seguito a quel periodo, ma la tradizione la conoscono bene, anche se i loro riferimenti sono eccentrici (Wenders, un tedesco che viveva il mito di riflesso, Agnès Varda, che l’America la guardava con l’occhio della Nouvelle Vague, e il Belli e dannati di Van Sant che aveva reso l’impronta di genere lirica e metaforica, a suo modo definitiva). I due fratelli sono conosciuti e apprezzati come documentaristi (45365, Western, Bloody Nose, Empty Pocket, invisibili da noi) e Gasoline Rainbow è la loro prima incursione nella fiction, anche se lo stile resta una curiosa ibridazione estetica, che è uno dei loro tratti più interessanti. Con una traccia narrativa del tutto lineare nel suo abbozzo (andare da un punto d’origine e approdare a una meta simbolica), hanno scelto i cinque ragazzi protagonisti con un paziente lavoro di casting e li hanno messi in un furgone (e poi, via via, su un treno, a piedi, su una barca) per farli viaggiare insieme e registrare la loro spontaneità fatta di emozioni, reazioni, ansie, qualche aspirazione poco convinta e tantissimi dubbi su cosa riserverà loro il futuro. Mentre intorno a loro scorrono scenari suggestivi, con alcuni tratti di struggente bellezza, i dialoghi improvvisati che sostanziano la narrazione formano un paesaggio emotivo ricchissimo, in cui emerge in tutta la sua forza la particolarità del momento di passaggio tra un’infanzia già di per sé non innocente (ognuno dei protagonisti ha una back story drammatica, fatta di genitori in rehab o totalmente assenti, di indigenza o di deportazione forzata oltre il muro di confine con il Messico) e un’età adulta nella quale non si intravede uno sbocco, una direzione possibile oltre quell’Oceano Pacifico che dovrebbe essere la spinta verso il futuro e invece è la rivelazione di una totale mancanza di aspettative.
La prospettiva del viaggio di Gasoline Rainbow, a dispetto dei riferimenti al passato, è totalmente ripiegata in se stessa, coerentemente con le ultime spurie testimonianze del genere (Locke sembrava non scorrere su strada, tanto era tagliato sui problemi personali di Tom Hardy; allo stesso modo, l’interessante esperimento di The Plains era concentrato su un abitacolo che rifletteva una soffocante reiterazione esistenziale, mentre il viaggio in Florida di Zola di Janicza Bravo era il tratto che collegava i puntini di un’esperienza erotizzata di paura e delirio). I cinque ragazzi, già autoesclusi per definizione, perché non conformi al modello di successo dominante (una delle loro voci narranti, proprio all’inizio del film, li autodefinisce weirdos, strambi), sono alla ricerca di una collocazione che non trovano nel chiuso asfittico della provincia e che possono soltanto sperare di raggiungere attraverso la loro catabasi, salvo poi riconoscere di non sapere come procedere oltre (e le mani in faccia di uno dei ragazzi, Tony, incapace di immaginare il suo futuro, suonano nelle ultime inquadrature come una sorta di evidente chiusura). L’Oceano diventa così la catarsi dell’intero viaggio, un’allegoria lirica che si trasforma in indifferente presa d’atto dopo l’ultima festa, tanto simile a un sogno di mezza estate per una generazione che si muove solo perché stare fermi significa scomparire, farsi inghiottire dalla fine delle speranze, non molto diversamente da quanto facevano Sal Paradiso e Dean Moriarty. Lo scambio di battute «Where the fuck are we at?», «I have no clue, man, just follow the road» (Dove siamo? Non ne ho idea, proseguiamo sulla strada) è la versione attualizzata del «Dove andiamo?» «Non lo so, ma dobbiamo andare» di Sulla strada. Tempi differenti, diverse esigenze, stessa inquietudine, identiche reazioni. La ribellione contro la società è roba da boomer, la rivolta è intima, contro il vuoto delle alternative.
Lo sguardo dei Ross pare non intervenire mai, tanto è rispettoso e discreto. Le immagini spesso sembrano rubate, estorte, prese a distanza, come se fosse un reportage. I dialoghi, in diverse occasioni, non hanno neanche una relazione dialettica con le immagini: gli uni (a volte fuoricampo, a volte ripresi di nuca o nascosti da un cappuccio) rendono progressivo il racconto, le altre ne situano il movimento. Le immagini semplicemente scorrono senza filtri: non ci sono campi e controcampi, non esiste nessuna sottolineatura (tranne una sul personaggio di Micah in lacrime, e la sua singolarità sorprende). La realtà è assunta integralmente, determinata dal suo stesso fluire. Il figurale predomina in modo assoluto, rendendo marginale il livello discorsivo e totalmente insulso il piano strutturale: le inquadrature sfuggono la composizione per accogliere ogni aspetto, anche lo sporco, lo sfocato, il poco definito, che affianca le immagini più accurate, esteticamente stupende. Il cinema dei Ross, se decideranno di continuare sulla strada di questo stimolante ibrido di real fiction, esprime una forza ancor prima di un significato, mostra un’intensa sensibilità invece di organizzare un banale racconto a tesi.
Con il liceo alle spalle, cinque adolescenti della provincia dell'Oregon decidono di imbarcarsi in un'ultima avventura. Saliti a bordo di un van con un fanale posteriore fuori uso, la loro missione è quella di raggiungere la costa del Pacifico, a cinquecento miglia di distanza.