Kevin Costner

Horizon: An American Saga - Capitolo 1

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«Civitas est hominum multitudo, ita dicta a civibus, id est ab incolis urbis. Urbs ita vocatur ab orde, quia veteres civitates in orbe aedificabantur, vel ab urbo, parte aratri quo muri urbis designabantur. Locus enim futurae civitatis sulco designabatur, id est aratro». (Ovvero: la civitas è costituita da una molteplicità di persone e prende il nome dai cittadini [cives], ovvero dagli abitanti dell’urbs. L’urbs assume la sua denominazione dal cerchio [orbis], siccome le antiche città erano costruite in cerchio, oppure dall’urbo, cioé la parte dell’aratro con cui venivano delimitate le mura della città).

Ci sia perdonato il latinorum di questa citazione dalle Etymologiarum sive Originum libri XX di Isidoro di Siviglia, necessaria per introdurre quello che è uno dei temi fondamentali di tutto il western: il passaggio dall’urbs alla civitas. Esplorato spesso indirettamente, va detto, ma non manca una moltitudine esemplare di film che affrontano l’argomento di petto (basti pensare a uno dei massimi capolavori del genere come L’albero degli impiccati di Delmer Daves). Recentemente sono arrivati nelle sale italiane due film che hanno dato forma compiuta alle riflessioni cinematografiche in merito. Il primo è Killers of the Flower Moon di Scorsese, un grande film – ancora vastamente incompreso – che fotografa e cristallizza il momento terminale della transizione: il crepuscolo irreversibile della frontiera che avviene nel momento della definitiva privatizzazione delle risorse naturali, dove la città [urbs] (che – come testimonia l’esergo di Isidoro – è definita dai suoi confini) si trasforma in una comunità [civitas] inscritta in un tessuto sociale ormai compiutamente istituzionalizzato. Motivo per cui – come ha giustamente scritto Roberto Manassero in questa sede – il film non è propriamente un western.

È invece un western in tutto e per tutto Horizon: An American Saga – Capitolo 1 di Kevin Costner.  Anzi, è un western che riprende il respiro romanzesco di un’iperclassicità ultracodificata. In Italia giunge proprio in un momento di timida western resurgence, grazie (finalmente!) alla traduzione dei romanzi del ciclo di Lonesome Dove di Larry McMurtry per Einaudi o agli sforzi della collana «Frontiere» edita da Mattioli 1885, che – tra gli altri – ha pubblicato i romanzi di A.B. Guthrie jr. (che ispirò Il grande cielo di Howard Hawks) e L’uomo che uccise Liberty Valance della troppo frettolosamente dimenticata Dorothy Marie Johnson (adattato da John Ford nell’omonimo capolavoro). Indizi che testimoniano di un piccolo ma rinnovato interesse nei confronti di un genere identificato nel momento della formalizzazione dei suoi archetipi. Una costruzione teorica e mitografica a cui non abdica l’ultimo film di Costner. Tutt’altro.

Inutile svelare troppi dettagli delle vicende, suddivise in tre tronconi, proprio per evitare di comprometterne il piacere del passo narrativo da feuilleton dumasiano. La prima linea di racconto, ambientata nella San Pedro Valley (e quindi al confine tra Stati Uniti e Messico), narra le vicende di un gruppo di coloni spinti da vantaggiosi concessioni terriere (l’azione principale si svolge intorno al 1863, ovvero in prossimità dell’emanazione dell’Homestead Act che favoriva l’assegnazione di lotti ai piccoli proprietari a disdoro dei grandi landowners) a creare una comunità agricola in un’area che gli Apache ritengono loro esclusivo distretto di caccia. La seconda, che si svolge inizialmente nel Montana, segue il mercante di bestiame Hayes Ellison (Kevin Costner) e le peripezie a cui va incontro per proteggere Marigold (Abbey Lee) – e il bambino che la giovane custodisce, figlio dell’amica Lucy (Jena Malone) –  dalle grinfie della spietata famiglia Sykes. La terza ha per protagonista una carovana diretta da Santa Fe alla comunità colonica (ribattezzata Horizon) della San Pedro Valley, guidata dall’abile ma non troppo deciso Matthew Van Weyden (Luke Wilson).

Ora, tornando a quanto detto all’inizio, possiamo quasi ritenere Horizon come una sorta di prequel di Killers of the Flower Moon. Il film si apre di fatto nel 1859, con i primi coloni della San Pedro Valley che, sotto lo sguardo vigile di alcuni Apache, tracciano i confini del loro appezzamento con la corda da agrimensore e piantano i paletti che circoscriveranno la loro proprietà (operazione che in inglese viene definita dall’espressione gergale «to claim a stake», ovvero –  letteralmente – rivendicare il paletto). Poco dopo, la seconda nidiata di coloni del territorio discute su quale sia il modo migliore per preparare il letto per la semina e rivoltare il terreno con l’aratro (ripetiamo ancora una volta le parole di Isidoro di Siviglia: probabile etimologia di «urbs» è «urbum», ovvero il vomere dell’aratro). Ci troviamo quindi in un contesto ancora marcatamente comunitario, lontano dalla civiltà industriale e prossimo invece alle direttive di un certo trascendentalismo emersoniano («la pioggia segue l’aratro», esclama idealisticamente uno dei personaggi). Di contro, le due storie che scorrono parallele contengono in nuce gli elementi che porteranno alla definitiva transizione verso la civitas: Hayes Ellison è il rappresentante di un’economia di mercato destinata a soppiantare l’economia di scambio incentrata sulle risorse e i beni naturali; il convoglio guidato da Van Weyden, in cui non possono mancare due carovanieri provenienti dal vecchio mondo (ai quali non a caso è affidata la funzione di contemplare e riprodurre col disegno la topografia di un nuovo mondo che non sanno comprendere), è chiaramente il segno di una futura mobilità sociale. Costner, che ha sceneggiato il film con Jon Baird, mostra fin da subito il desiderio di recuperare una precisa configurazione mitopoietica dai contorni netti, storicamente definiti (anche se, ovviamente, filtrati dalla lente deformante del mito) e lontani dalle tentazioni metafisiche cui il genere è andato incontro negli ultimi lustri (basti confrontarlo con il coevo I dannati di Roberto Minervini). Come ha scritto Nicolò Vigna su Lo Specchio Scuro, quello di Costner è sempre stato un «un approccio neoclassicista al cinema western, quasi naïf ma al contempo sincero e legato a certe radici classiche del genere» che mostra «una visione utopistica del mondo».

E di «utopistico» in Horizon non c’è solo la prospettiva sulla Storia ma anche un’idea di cinema che, tracciando un curioso parallelismo con la parabola di Francis Ford Coppola e del suo Megalopolis (presentato a Cannes proprio come Horizon), abbraccia una visione quasi rinascimentale. Costner pensava al film già dalla fine degli anni Ottanta, ha trascorso anni di ricerca e di studio, ha poi investito ingenti capitali di tasca propria e, grazie a una determinazione fuori dal comune, ha potuto finalmente dare forma alla sua visione, dividendo il materiale magmatico in due capitoli (il secondo uscirà ad agosto).

Certo, proprio la sua natura di gigantesco build-up, rende difficile formulare un giudizio definitivo sul film, a cui si possono rimproverare certi passaggi sbrigativi di sceneggiatura o certe scelte di cast e di cui, al contrario, non si può ignorare la forza straordinaria di alcuni momenti (l’arrivo del missionario evangelico nelle terre desertiche della San Pedro Valley, il lungo assedio notturno degli Apache all’abitazione della famiglia dei coloni Kittredge). Ed è forse meglio non tirare conclusioni su alcuni aspetti che probabilmente assumeranno una definizione progettuale più compiuta con l’arrivo del secondo capitolo (la maestosità epica dei precedenti Balla coi lupi e Terra di confine – Opern Range è qui stranamente trattenuta, anche per la scelta di girare in digitale nativo 6K e 8K e in un formato più ristretto rispetto al 2, 35:1 o al 2,39:1 che ci si sarebbe aspettati).

Più saggio, forse, salutare con affetto il tentativo di recuperare una precisa identità culturale immediatamente associabile a una lunga stagione cinematografica che sembra ormai perduta. Senza, però, l’alibi della nostalgia, ma con la fiducia – forse ingenua e per questo quasi commovente – in un’ideale di racconto che sappia rimescolare situazioni, spazi e personaggi nel tempo mitico del cinema.


 

Horizon: An American Saga - Capitolo 1
Stati Uniti, 2024, 181'
Titolo originale:
Horizon: An American Saga - Chapter 1
Regia:
Kevin Costner
Sceneggiatura:
Jon Baird, Kevin Costner
Fotografia:
J. Michael Muro
Montaggio:
Miklos Wright
Musica:
John Debney
Cast:
Kevin Costner, Sienna Miller, Sam Worthington, Jena Malone, Owen Crow Shoe, Tatanka Means, Ella Hunt, Tim Guinee, Giovanni Ribisi, Danny Huston, Colin Cunningham, Scott Haze, Tom Payne, Abbey Lee, Michael Rooker, Will Patton, Jim Lau, Georgia MacPhail, Douglas Smith, Roger Ivens, Larry Bagby, Hayes Costner
Produzione:
New Line Cinema, Territory Pictures Entertainment, Warner Bros.
Distribuzione:
Warner Bros Italia

Negli anni a cavallo della Guerra Civile Americana, l'epopea del West vissuta attraverso il punto di vista di vari personaggi tra avventure, combattimenti, sudore, sangue e la lotta tra i coloni e gli indiani.

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