Maurizio Gucci fu assassinato con quattro colpi di pistola da un killer prezzolato il 27 marzo del 1995 sulla soglia del palazzo sede della sua società, in via Palestro a Milano. Nel film di Ridley Scott, l’agguato avviene in una tiepida giornata primaverile (il protagonista è in giro in bicicletta in giacca e cravatta), vicino a una piazza con grande fontana barocca, subito dopo un arco che ricorda quello prospiciente i giardini di via Palestro. A Roma. Pare che abbiano deciso di girare là perché a Milano quel giorno era prevista pioggia. Ora, è chiaro che il realismo ha pochissima importanza in un film come House of Gucci (e questa non è una notazione aprioristicamente negativa: il cinema è anche invenzione, dilatazione, distorsione). Quello che infastidisce è, se mai, l’accanita ricerca di una verosimiglianza un po’ pacchiana e sopra le righe, sottolineata dalla scelta della bellissima Fontana delle Rane di Coppedè: l’accento italiano (secondo alcuni, più che italiano, moscovita) di tutti i personaggi (ovviamente, se vedete il film in lingua originale, inglese, con i sottotitoli), la gestualità esasperata (tranne Jeremy Irons, che fa l’etereo gentiluomo rinchiuso nel passato, tra penombre, tazze di tè e fluttuanti sciarpe viscontiane), gli scorci sontuosi di magioni sul lago, fattorie nella campagna toscana, residenze sulle montagne svizzere innevate, pezzi di città rimescolati, feste luccicanti stile Milano da bere. Tutto quanto fa Italia, compresa una buona dose di volgarità (parrebbe innata), che però non riguarda solo gli italiani, né la famiglia Gucci con annessi e connessi, alleati, soci, nemici, ma tutto il mondo imprenditoriale della moda, in generale tutto quanto fa «ricchezza, stile, potere» (tra le prime parole pronunciate all’inizio del film), tranne Tom Ford, che invece è gay e al primo successo va a telefonare alla mamma ad Austin.
Insomma, importa poco che via Palestro non sia, visibilmente, via Palestro, considerate soprattutto le numerose “licenze” che sceneggiatori e regista si sono presi rispetto alla vicenda originale (e al suo tempo), compresi lo spostamento dell’incontro tra Maurizio Gucci e Patrizia Reggiani al 1978 (si sposarono in realtà nel 1972 e si separarono nel 1985), la cancellazione della seconda figlia della coppia, Allegra, l’incredibile pastiche pop-classico che spazia dagli Eurythmics a Bowie, Bruno Lauzi, i Blondie, Pavarotti&Chapman, La gazza ladra, la Traviata, il Barbiere, il Coro a bocca chiusa di Puccini che sottolinea quello che è forse l’unico momento di vera regia del film, forse un tantino camp, ma regia (ma il picco dell’inconsulta cacofonia è La ragazza col maglione di Pino Donaggio, hit del 1962, messo in apertura nel 1978). Tutto questo non importerebbe niente se non ci fosse quella ricerca meticolosa di una “italianità” inesistente e grottesca e, soprattutto, se House of Gucci fosse un buon film, un buon mélo o una buona soap. Non possono crederci nemmeno negli States, dopo cinquant’anni di film, capolavori e serie sugli Italian-American, su mafiosi, ristoratori, tassisti, padrini, Soprano, gang di città e di provincia, procuratori, poliziotti, casalinghe, camerieri, ecc ecc, a questa rappresentazione degli italiani ricchi e potenti degli anni 70, 80 e 90, ad Al Pacino che era un signore quando faceva Michael Corleone (com’era un signore Marlon Brando-don Vito Corleone) e che qui invece trasforma Aldo Gucci in un guitto caricaturale tutto abbracci e cuore in mano, o alla rozzezza senza incrinature della Patrizia Reggiani di Lady Gaga, che è astutissima nell’insinuarsi negli affari di famiglia ma poi crolla con ingenuità da parvenu davanti alla classe degli amici (di classe) del marito. Il look, gli abiti, l’eccesso di accessori della signora che ha sempre rivendicato il cognome Gucci sono perfetti, ma anche Lady Gaga (checché ne dicano i critici stranieri e le candidature agli Oscar) ci dà dentro troppo, come tutti. Perché prendersela, allora, con Jared Leto che, nella parte di Paolo Gucci, il figlio che il padre Aldo definisce «uno stupido, ma il mio stupido», dipinto come stilista privo di talento e frustratissimo, si agita con acuti e movenze da soubrette? Viene il sospetto che sia l’unico ad aver afferrato il senso di un’operazione tutta di maniera e di superficie. Ma il vero problema di House of Gucci è che pare costruito mettendo insieme gli episodi di una soap: ogni episodio ha il suo tema centrale, il suo climax e la sua discesa; e poi si riprende con il successivo.
Un Dynasty frullato in due ore e tre quarti, non un organico melodramma, kitsch quanto si vuole ma costruito con i tempi e il ritmo di un racconto unico. Probabilmente, se Ridley Scott (del quale, ahimé, non si vede mai la mano, a meno di non ripensare alle sue origini, pre-Duellanti, nella pubblicità) avesse fatto una miniserie di quattro ore in quattro puntate, avrebbe realizzato un film (un prodotto) molto migliore, una storiaccia di soldi, famiglie, potere e bella o brutta gente più godibile e armoniosa di questa.
House of Gucci è ispirato alla sconvolgente storia vera della famiglia che ha fondato Gucci. La casa di alta moda italiana diventata famosa in tutto il mondo. Il film racconta tre generazioni di Gucci attraverso tre decenni. Potere, Creatività, Ambizione, Tradimento, Vendetta e un omicidio. Tutto per il controllo della Maison che portava il nome della loro famiglia.