In una delle prime scene de Il Grande carro Peter – che lavora nella compagnia teatrale di burattini a gestione famigliare del padre di Louis ma sogna di fare il pittore – sta camminando insieme allo stesso Louis verso l’atelier e mentre descrive le sfortune e le ristrettezze della sua vita di artista dice all’amico e collega «non tutti hanno la fortuna di avere una famiglia come la tua!». Già, la famiglia, intesa come nido, punto di riferimento, ma anche come luogo in cui germinano conflitti e i legami possono imprigionare e diventare vincoli indissolubili – nel bene e nel male.
È chiaro sin dalle prime scene che Il Grande carro è un film intriso di autobiografismo. Garrel mette in scena una famiglia di artisti fuori tempo, che porta ostinatamente in giro un’arte antica, dimenticata e fuori moda come quella dei burattini. Ma allo stesso tempo parla della propria di famiglia e insieme quindi della propria vita e della propria arte. E lo fa raccontando un padre (senza nome) che muore (in scena) appena dopo un quarto di film e i suoi tre figli – i veri tre figli del regista – che invece usano quasi tutti i loro nomi reali: Louis e Lena, solo Esther diventa Martha.
E allora non è difficile capire come Il Grande carro sia soprattutto una enorme metafora dentro la quale Garrel racchiude i sentimenti e le emozioni che abitano quest’ultima parte della sua parabola artistica e della sua vita. Sarebbe banale, nel caso di un autore così eccentrico e multiforme, definire il film come un lascito o un testamento spirituale, ma è senz’altro vero che un incedere narrativo tanto disomogeneo e a tratti impressionistico come quello che il regista utilizza, porti a considerare l’opera come un lavoro privato, personale e fortemente soggetto all’emotività. Del resto il film appare sin dalle prime inquadrature qualcosa di eccentrico rispetto al cinema più tipico del regista parigino. L’uso del colore e del formato 2,35:1 (che Garrel non utilizzava insieme da Un été brûlant del 2011) per esempio danno a Il Grande carro una dimensione differente dal solito, rendendo le immagini (che pure restano ostinatamente e ineluttabilmente in 35mm) come uno sguardo aperto e lucido sul presente.
Garrel pur restando attaccato alle questioni di sempre – le insidie dei sentimenti e della vita di coppia, l’impegno politico e l’irrinunciabilità dell’adesione alle idee comuniste, l’insofferenza verso le convenzioni borghesi – introduce temi che si fissano su questioni più intime e personali. Quasi intendesse davvero se non chiudere definitivamente con la propria poetica, almeno mettere in campo riflessioni dal respiro universale. E allora lo sguardo contempla un’idea di fine profondamente pudica (i vecchi letteralmente si fanno da parte) mentre a essere messe al centro sono le scelte che i personaggi più giovani compiono. Scelte sbagliate (quella di Martha di tenere in vita una compagnia morta) folli e controproducenti (quella di Peter di non vendere i propri quadri nonostante la profonda indigenza in cui versa), egoiste (quella di Louis di abbandonare le sorelle per inseguire le sue ambizioni attoriali), ma tutte profondamente dettate dall’amore per l’arte e quindi – sembra suggerire il regista – intrinsecamente giuste. Perché se c’è una cosa che il cinema di Garrel ha sempre insegnato e non smette di ripetere è che la libertà è la passione più ardente di tutte. E vale la pena vivere per essa!
Tre fratelli, un padre e una nonna gestiscono uno spettacolo di burattini itinerante. Quando il padre muore durante uno spettacolo, i restanti membri della famiglia cercano di mantenere viva la sua eredità.