Nella Roma Imperiale i legionari erano soldati di professione, spesso provenienti dai ceti meno abbienti, allettati più dalla paga che dall’idea di servire lo Stato. E come moderni legionari, con scudi e manganelli, si muovono i celerini nella Roma di oggi, secondo il giovane regista Hleb Papou (italiano di origini bielorusse), premiato come miglior esordiente al Festival di Locarno.
Il suo primo lungometraggio si apre con la squadra antisommossa schierata a testuggine in uno scontro con dei manifestanti, al termine del quale uno degli agenti vomita prima di risalire sul furgone blindato: è il primo segnale di rigetto nei confronti di una realtà che si rivelerà nauseante e nociva. Quando poi all’agente viene chiesto perché non si faccia trasferire in ufficio, la risposta è lapidaria: e il mutuo chi me lo paga?
In questo contesto si ritrova ad agire il protagonista Daniel, poliziotto di origine africana, uomo diviso dall’appartenenza a due famiglie: quella naturale, composta dal fratello Patrick e la madre, che vivono in un palazzo occupato insieme ad altre quattrocento persone, e il reparto celere che gli ha permesso di ottenere uno stipendio e una casa dove convive con la fidanzata incinta.
Daniel è un prodotto del suo ambiente, sa fare bene il suo lavoro ma una parte di sé lo rinnega, come quando con la playstation gioca a uno sparatutto uccidendo i poliziotti. Il suo conflitto interno, simboleggiato dal casco protettivo su cui è appiccicato l’adesivo di un emoji sorridente, è destinato a esplodere quando sarà chiamato a sgomberare proprio la palazzina abitata dalla famiglia e dove lui stesso è cresciuto.
Il pregio principale del film sta nel realismo con cui viene descritto uno spaccato di società degradata, dove la luce invocata (anche letteralmente) dai personaggi non può che rimanere spenta, e il razzismo più o meno latente – accettato dallo stesso Daniel che viene chiamato affettuosamente “Ciobar” dai colleghi – è il riflesso dell’ignoranza e intolleranza diffusa, non solo all’interno del reparto dei celerini (anche Daniel aggredisce uno degli abusivi del palazzo chiamandolo «zingaro», mentre Patrick vuole che la madre albanese di suo figlio parli italiano «perché siamo in Italia»).
Il cameratismo e il machismo incarnati dal caposquadra di nome Aquila, e rivendicati orgogliosamente in un imbarazzante video di auguri per il figlio (con slogan riciclati da Il gladiatore come “Forza e onore”), non possono essere davvero condivisi da Daniel, che tuttavia deve aderirvi per continuare a far parte di quella famiglia acquisita.
In questa guerra tra ultimi non ci sono vincitori, solo pedine di un gioco in cui vince sempre il banco, come ben evidenziato dal campo-controcampo del dialogo tra gli occupanti, che vorrebbero tenersi un tetto sopra la testa, e un funzionario del Comune che risponde parlando di coefficienti e graduatorie.
Si intravede la visione di un autore ne Il legionario, purtroppo non supportata da una regia e da una recitazione spesso non all’altezza, che in molti momenti indeboliscono la narrazione. Ravvivata, almeno in parte, dal climax che conduce allo sgombero finale del palazzo, durante il quale Daniel prenderà una decisione, senza riuscire però a risolvere il suo dissidio interiore, anzi perdendo sia la famiglia sia la celere.
Sopra il tetto del palazzo da sgombrare Daniel rimane solo, forse con il pensiero di una figlia in arrivo e il timore che (r)esistere in questo mondo non sarà facile nemmeno per lei.
Daniel è l'unico poliziotto di origine africana del Reparto Mobile di Roma. Deve sgomberare un palazzo occupato in cui vivono 150 famiglie. Una è la sua.