Maryam Moghadam, Behtash Sanaeeha

Il mio giardino persiano

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De Il mio giardino persiano (My Favourite Cake) di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, restano impressi innanzitutto alcuni momenti. L’incipit, con l’inquadratura dell’ingresso della casa in cui si svolgerà la vicenda, la luce del giorno che vi entra e il giardino che si intravede all’esterno, e poi la protagonista, Mahin, che dorme nonostante sia mezzogiorno, svegliata dalla telefonata di un’amica alla quale ripete che lei, di mattina, ha bisogno di riposare perché di notte non riesce a farlo, e infine la donna al tavolo della cucina, assorta e pensierosa mentre fa colazione e fuma, prima di cominciare a svolgere le faccende quotidiane. Delle riprese sobrie, semplici, essenziali. Ma al contempo simboliche ed evocative: lo spazio, la luce, la protagonista settantenne, robusta, non bella, vedova e madre di due figli che hanno lasciato l’Iran vent’anni prima e che lei non riesce ad andare a trovare, perché per motivi di età non può ottenere il visto. E il finale, cupo, drammatico, con l’inquadratura lunga, silenziosa, della sua testa da dietro e delle spalle, sulla stoffa di uno dei vestiti che ha indossato quella notte, quelli che la figlia le porta dall’estero.

Il cuore del film è proprio quella notte, la notte in cui la protagonista, influenzata dalle amiche che la spingono a trovare un uomo dopo anni di vedovanza e di vita sempre uguale, incontra un coetaneo che le piace e lo invita a casa. Lui, Faramarz, è un tassista che ha fatto carriera militare e che a un certo punto ha lasciato l’esercito, un musicista dilettante di tar (strumento simile al liuto diffuso nella zona caucasica, ma dalla suggestiva forma a otto, richiamante l’infinito) e una persona altrettanto sola, che deve fermarsi in farmacia prima di raggiungere Mahin perché ha le sue magagne fisiche (la mano destra è piena delle schegge della guerra) ma che accoglie, come del resto la donna, ciò che la vita gli dona: un incontro, una chiacchierata fluida, gentile, che viene da sé, delle ore da passare insieme guardando l’altra/o, ascoltando l’altro/a, dandosi a una persona che si sente affine, come da tanto tempo non succedeva. E anche qui, dicevamo, i momenti: la corsa in farmacia sotto la pioggia torrenziale, mentre lei aspetta in auto; il giardino che si illumina man mano perché lui le sa aggiustare le lampadine che sono rotte da un bel pezzo, e lo fa volentieri; il giardino, appunto, che si mostra nella sua bellezza austera con i cedri rubati anni prima al parco pubblico, per ospitare la cena dei protagonisti; le battute sul vino (proibito dal regime) che Mahin ha conservato, e che offre a Faramarz mentre lui le racconta che, con degli amici, raccoglieva tanta uva nel suo cortile e lo faceva in casa… piccole trasgressioni, strategie di sopravvivenza, segni tangibili di un regime che nega qualunque cosa possa donare gioia, tanto che la felicità che i due si danno in quelle poche ore diventa qualcosa di politico, anzi di rivoluzionario.

Questo film semplice anche nello stile (totali in prevalenza, primi piani, campo – controcampo classico nell’automobile, in ogni caso ambiente e personaggi mostrati in modo pacato e fluido, con movimenti di macchina molto parchi e sempre funzionali), che mostra la magia che la vita può avere se si riesce a cogliere i momenti e a viverli, a goderli nelle piccole cose, come la torta del titolo originale, un dolce alla crema di vaniglia e al profumo d’arancio, o come la menta che la protagonista raccoglie nel suo giardino perché ha appena scoperto che lui la adora; odori, sapori, luce; questo film semplice della semplicità della vita e sostanzialmente narrativo, “umano” nella raffigurazione di persone vere, autentiche, buone, e della loro intimità; questo film semplice, si diceva, in realtà è un film politico. Maryam Moghaddam ha lavorato con Panahi in Closed Curtain (2013) e poi, con il marito Behtash Sanaeeha, ha diretto Ballad of a White Cow (2021, in concorso, come questo, al Festival di Berlino), un film che mette in discussione la pena di morte (e, in generale, la situazione dell’Iran di oggi) e che ha causato una battaglia legale durata due anni. Questo film, che di esplicitamente politico ha solo una scena, quella in cui la protagonista difende una ragazza che sta per essere arrestata per un ciuffo di capelli fuori posto, cioè fuori dall’hijab (richiamando la vicenda tragica di Mahsa Amini, anche se le riprese del film sono iniziate prima), oltre al fatto che è Mahin, quindi una donna, sia pure anziana, a invitare da lei Faramarz, in realtà è rivoluzionario, come si diceva, per il fatto di “mettere in scena” la serenità e la gioia contro tutti gli ostacoli, compreso il controllo serrato della vicina che ha il marito che lavora per il governo. I registi, infatti, non hanno ottenuto il passaporto per recarsi alla Berlinale 74, dove gli attori, Lily Farhadpour e Esmail Mehrabi, hanno tenuto comunque bene in vista la loro fotografia.


  

 

Il mio giardino persiano
Iran, Francia, Svezia, Germania, 2024, 97'
Titolo originale:
My Favourite Cake (Keyke mahboobe man)
Regia:
Maryam Moghadam, Behtash Sanaeeha
Sceneggiatura:
Maryam Moghadam, Behtash Sanaeeha
Fotografia:
Mohamad Hadadi
Montaggio:
Ata Mehrad, Behtash Sanaeeha
Cast:
Lili Farhadpour, Esmaeel Mehrabi, Mansoore Ilkhani, Soraya Orang, Homa Mottahedin, Sima Esmaeili, Aman Rahimi, Azim Mashhadi, Saeed Payamipoor
Produzione:
Caracteres Productions, Filmsazane Javan, HOBAB, Watchmen Productions
Distribuzione:
Academy Two

La vedova settantenne Mahin non ha mai voluto risposarsi e vive sola a Teheran nella sua grande casa con giardino. Stanca della solitudine, avvicina l'anziano tassista Faramarz e lo invita da lei per passare una serata insieme. L'incontro inaspettato si trasformerà per entrambi in qualcosa d'indimenticabile.

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