Non è soltanto per una questione di stile – la forza e la durezza di pochi, lunghi piani fissi che si succedono implacabilmente per un’ora e mezza, mostrando più che inquadrando – che dopo pochi minuti dall’inizio di Austerlitz di Sergei Loznitsa viene da chiedersi (ed è una domanda che non abbandona più lo spettatore) chi, o forse cosa, stia guardando. Non basta concludere, come hanno fatto in molti, che guardiamo il guardare della Folla che, quotidianamente, attraversa (visita) il Campo di Concentramento Nazista (tutto maiuscolo, perché il soggetto del film è la singolarità assoluta di una condizione plurale).
Il romanzo di W.G. Sebald che avrebbe innescato il film (almeno stando al regista) aiuta poco, come pure il ricorso all’oggettività documentaristica, vera o presunta; bisogna attendere la fine, il nero su cui scorrono i titoli di coda, per essere messi sulla strada giusta: nel silenzio che si è nuovamente impadronito del Campo – in attesa di un nuovo giorno, della riapertura, della Folla –, il Cancello (su cui troneggia la scritta Arbeit Macht Frei) cigola debolmente, forse scosso dal vento, producendo un suono che è, insieme, di morte e riposo.
Ma che quel guardare ostinato appartenga alle cose – al Campo – lo si intuisce soprattutto grazie al “vero” libro che sta alla base del film, Scorze di Georges Didi-Huberman (uscito in francese nel 2011 e in italiano, per Nottetempo, nel 2014), racconto per frammenti e immagini di una visita dello scrittore al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Una visita nel tempo del campo, oggi “luogo di cultura”, ieri “luogo di barbarie”, nella distanza che separa queste due definizioni, una visita a ciò che resta – può davvero restare – del primo nel secondo: «Che cosa dire quando Auschwitz deve essere dimenticata nel suo luogo reale per costituirsi come luogo fittizio destinato a ricordarsi di Auschwitz?». L’improvviso atterraggio di un uccello, che si posa tra due recinzioni di filo spinato, attira l’attenzione del filosofo sull’inevitabile (ma non per questo pacifico) compromesso che congiunge le due definizioni: sullo sfondo, corre il filo spinato elettrificato del campo, col suo metallo ormai scurito dalla ruggine; in primo piano, un filo spinato più chiaro, intrecciato in modo diverso, evidentemente installato di recente: «Rendermene conto mi fa stringere il cuore», scrive Didi-Huberman; e poi: «Sento che l’uccello si è posato tra due temporalità terribilmente disgiunte, tra due modi completamente diversi di gestire la stessa porzione di spazio e di storia. L’uccello, senza saperlo, si è posato tra la barbarie e la cultura».
L’ora e mezza di Austerlitz è collocata esattamente tra questi due tipi di filo spinato, tra lo sguardo – inevitabilmente spettrale – di una barbarie passata e lo sguardo “culturale” di chi oggi visita il Campo – il Campo che deve mentire per dire la verità, semplificare per far capire, essere didattico e accogliente per costituirsi come “luogo della memoria”. La frizione tra una cultura e l’altra (perché anche la barbarie lievita da una certa cultura) prende a poco a poco la forma di una (altrettanto inevitabile) profanazione, e Loznitsa ha perfettamente ragione a interpretare lo sguardo del Luogo e delle Cose come fisso, e cioè prigioniero della sua stessa posizione, quasi carcerario – una specie di videosorveglianza della Storia. L’incessante movimento della Folla – che può entrare la mattina e uscire la sera da quel cancello cigolante, che può camminare liberamente, bere e mangiare, riposarsi e fumare, ridere e farsi una fotografia – somiglia a un’invasione e, dal punto di vista del Luogo, a un inimmaginabile, simmetrico e opposto a quello che lo ha abitato quando apparteneva alla barbarie.
Non sorprende, dunque, che sia soprattutto il racconto di questa fenomenologia – più che le inevitabili questioni che il documentario finisce implicitamente per sollevare, da quella della musealizzazione del Campo e dell’Orrore a quella della condivisione della memoria – a imprimersi nella memoria dello spettatore: i tanti riflessi – nessuna ritualità – dell’esperienza culturale della barbarie; lo spettacolo di un’appropriazione e, insieme, di una sottrazione, perché quell’esperienza è anche, necessariamente (inevitabilmente), un tradimento, come raccontano bene tre scatti fotografici (tra le centinaia raccolti dalle inquadrature del film): quello, all’entrata del campo, di una ragazza in posa davanti al cancello, sotto l’insegna Arbeit Macht Frei, a cui risponde, durante l’uscita, il selfie di una famiglia (padre, madre, figlia), e quello di un ragazzo che “mette in scena” la posizione di un condannato a morte legato a un palo. Che cosa sono quelle fotografie? Memorie, trofei, souvenir; forse, come suggerisce Didi-Huberman, una reazione inevitabile a quell’esperienza: «Per non restare né accecato né annientato da tutto questo, ho fatto come fanno tutti: ho scattato qualche fotografia a caso. Diciamo quasi a caso», perfettamente consapevole di aver compiuto il gesto meno indicato – la barbarie del Campo ha lavorato contro qualsiasi tipo di memoria.
Si capisce meglio, adesso, perché Loznitsa non avrebbe potuto fare il suo film sul Campo trasformato in Luogo della Memoria se non ponendosi dal punto di vista della vittima: di tutti i regimi di inevitabilità inscritti in esso, questo finisce per essere il più carico di conseguenze e possibilità. Del resto, come ricorda Didi-Huberman, l’esperienza dell’orrore inscritto (e riscritto) in quel Luogo non può risolversi nel silenzio (delle immagini).
A patto, però, di sistemarsi là dove è atterrato l’uccello, tra ciò che c’era e ciò che non c’è più – tra la barbarie vissuta e quello che oggi può essere guardato, percorso, toccato: vale a dire, bisogna saper guardare come guarda un archeologo. Perché è solo attraverso un tale sguardo – e una tale interrogazione – «che le cose cominciano a guardarci dai loro spazi e dai loro tempi sepolti».
Ci sono luoghi in Europa che sono rimasti come ricordi dolorosi del passato, fabbriche dove gli esseri umani erano trasformati in cenere. Questi luoghi sono ora luoghi della Memoria, aperti al pubblico sono visitati da migliaia di turisti ogni anno. Il titolo del film si riferisce al romanzo omonimo scritto da W.G. Sebald, dedicato alla memoria della Shoah. Questo film è una osservazione dei visitatori di un sito per il ricordo, nato negli spazi di un ex campo di concentramento. Perché le persone ci vanno? Che cosa stanno cercando?