Viviane è sposata da un’eternità con un uomo che non ama. Da tre anni ha lasciato la sua casa per vivere con la sorella e ogni giorno prepara il cibo da recapitare ai suoi figli. Non tradisce il marito, non ha una nuova vita a cui accostarsi, un sogno romantico per tingere di rosa il futuro. Viviane vuole semplicemente riconquistare la libertà, rivendicare un’autodeterminazione, decidere del proprio destino. Ma siamo in Israele, dove i matrimoni li fanno e li disfano le autorità religiose, e per ottenere il Gett – lo scioglimento della sacra unione – serve il consenso del marito (maschio, capo, padrone).
Ronit e Shlomi Elkabetz continuano la loro anamnesi dei rapporti matrimoniali – dopo il magnifico Prendere moglie e il funereo 7 giorni – descrivendo la testardaggine necessaria a una donna per affermare un diritto all’esistenza senza piegarsi al burocratico scorrere del tempo, senza adeguarsi a uno status quo scandito da abitudini e convenzioni.
Viviane sceglie invece di combattere un nemico impalpabile avendo come unica arma la sicurezza di essere nel giusto, la certezza della propria volontà. Il film si svolge tutto nelle spoglie stanzette di un tribunale rabbinico: i coniugi, i giudici, gli avvocati, i testimoni si incrociano senza quasi sfiorarsi. Il luogo è asettico, lontano dalle ridondanti aule dei film processuali; nessun cartello ad ammonire che la legge è uguale per tutti perché, semplicemente, questo non è vero.
Il tempo scorre implacabile nei continui rimandi della corte, nei dinieghi del marito – a volte distratti e a volte furiosi – a concedere ciò che appare come un diritto inalienabile, nelle testimonianze appassionate o reticenti di parenti e amici: un vestito diverso, una nuova acconciatura, un rifiuto a comparire segnalano il fluire delle stagioni, sottolineando che in quelle stanze a una donna si può rubare tutto, anche il tempo di una vita.
Gli Elkabetz entrano piano nella psicologia dei protagonisti – prima titubanti, quasi timidi – per costruire un gioco a incastri che acquista il ritmo implacabile del thriller psicologico in cui, in un clima di anodina ansia di pacificazione, scorrono violenze impercettibili e feroci vendette silenziose.
Ciò che si rifiuta, nei modesti locali di un modesto tribunale presieduto da una modesta corte, è la possibilità di spezzare un patto di fedeltà: a un marito, alla società, a Dio. L’amore, il rispetto del volere altrui, la necessaria coincidenza di scelte e di sentimenti sono nominati solo di sfuggita, come incidenti di un destino che deve compiersi per fini altri, superiori e imperscrutabili.
La lotta di Viviane rappresenta la sfida di Prometeo alle istituzioni, l’urlo di rivolta che cresce pian piano, la goccia che scava la roccia vivendo sulla propria pelle l’indifferenza – umana, sociale, religiosa – verso chi spera in un’ipotetica, minuscola felicità.
Nel tribunale religioso di una località israeliana non specificata si esamina la richiesta di divorzio di Viviane Amsalem, che da tre anni ha lasciato il domicilio coniugale per incompatibilità col marito Elisha. L'ostinata determinazione di Viviane nel voler conquistare la propria libertà si scontra con l'intransigenza di Elisha e con il ruolo ambiguo dei giudici.