Oltre l'idea di narrazione, di racconto, forse di cinema stesso, e non in un'accezione per forza di cose positiva, Malick ha ormai intrapreso un percorso dal quale difficilmente tornerà indietro. E del quale ormai sappiamo tutto: la macchina da presa fluttuante, gli attori che passeggiano nello spazio, che si voltano e si guardano, la voce over che sussurra invocazioni e pensieri, la frammentazione totale dell'unità di spazio e di tempo, la pedanteria di uno sguardo estatico, lezioso, spesso patinato.
In Knight of Cups c'è tutto questo, se possibile spinto in maniera ancora più insistita verso la dissoluzione e la dispersione, come infiniti frammenti di storie, di immagini, di corpi centrifugati ed espulsi. Si può accettare o si può tranquillamente mollare al secondo stacco di montaggio, non è nemmeno più il caso di farselo piacere o meno: Malick rivendica il proprio potere creativo, crede fermamente nel potere delle immagini, espande, ripete, moltiplica in un modo che ormai appartiene solo a lui e che è un passo indietro, per dire di due film usciti negli stessi giorni in cui Knight of Cups veniva presentato a Berlino (febbraio 2014), rispetto alla concentrazione di un P.T. Anderson o di un Michael Mann, capaci di racchiudere il senso dei loro film in un campo fisso o in un campo-controcampo. Malick è un demiurgo, le immagini le mescola come argilla, nel suo estremo controllo sembra quasi non averne consapevolezza.
In Knight of Cups, però, tutto questo assume un senso più chiaro e terreno, più umano anche, e meno metafisico, rispetto a To the Wonder e forse anche The Tree of Life. È insopportabile, certo, Knight of Cups, ma lo è in maniera inevitabile, grave, come un film condannato a una drammatica coazione a ripetere: ripetere immagini che riprendono luoghi oggetti e movimenti di altri film (la Valle della morte, le spiagge, le lenzuola, le tende, le passeggiate, l'esibizione del corpo); ripetere gesti e relazioni, con il protagonista, uno sceneggatore di Hollywood interpretato da Christian Bale, che vive diverse relazioni ogni volta alla stessa maniera, tra amore, felicità, sfioramenti, spostamenti e abbandoni. E soprattutto, ripetere continuamente questo passaggio sulla terra che è una condanna, un dono incomprensibile vissuto come un tormento.
Questa volta non c'è nemmeno Dio a sorreggere il viandante, il pellegrino anzi, come suggerito dalla citazione dal Pilgrim's Progress di Bunyan che apre il film: «As I walk’d through the wilderness of this world, I lighted on a certain place where was a Den, and I laid me down in that place to sleep; and as I slept, I dreamed a Dream...». E la «wilderness of this world», la terra selvaggia, in Knight of Cups è Los Angeles, stranamente possente e concreta, spazio non solamente terreno, ma terra civilizzata, costruita, soffocata, filmata con uno sguardo che non è più estatico ma è come inghiottito, travolto dalla totalità di cemento e colore (e non a caso a un certo punto c'è pure Las Vegas).
Un film di Malick non è mai stato così materico, così sordo nel rappresentare la geografia fisica di una terra. Paradossalmente, Knight of Cups sembra essere quel film su Los Angeles e la luce americana che non vuole e non può più essere Vizio di forma di Anderson: l'attraversamento dei suoi boulevard e delle sue spiagge, dei suoi fiumi artificiali e delle sue ville miliardarie, in una luce bianca e anestetizzante, rimanda inevitabilmente a Pynchon, alle descrizioni spaventose della città, a quella «public and anonymous confession of the deadly sin of greed», una confessione pubblica e anonima di un peccato mortale di avidità.
Malick non imbastisce un discorso sul mito americano, filma la geografia del suo Paese come se fosse una terra sconosciuta, vista per la prima volta; i suoi spazi non sono nemmeno lontanamente i campi della repubblica di Gatsby: ma mai come in questo caso il suo solito ragionamento filosofico sul vivere e sul cercare la felicità sulla terra (tra struggimenti e rimandi autobiografici al tragico destino del fratello) è unito all'idea di ingabbiamento, di costrizione in un luogo e in un tempo precisi, in un luogo e in un tempo americani, fra ricchezza e bulimia di immagini, di occhi, di scatti, di messe in posa.
Christian Bale è come una figurina fissa che si muove davanti all'obiettivo, è un mascherino che fa da tramite e da ostacolo alla vista, attraversa scene e luoghi come non visto, osserva ma non vede, subisce i gesti della terra, il pericolo di un terremoto, la pesantezza dell'acqua, il calore di un fuoco senza conseguenze. È un prigioniero, come tutti. È un pupazzo, senza corpo, senza vita vera, come tutti. Ma può anche essere un dio, o un santo, o se vuole anche uno stronzo, come gli dice una delle sue infinite amanti.
Il personaggio di Bale è tutto e il suo contrario, è nulla, è potenzialmente infinito, inevitabilmente limitato. Sembra vivere mille vite, oppure nessuna. Conta solo il momento, come dice una massima buddhista citata nel film. Ed è difficile, onestamente, non vedere in questo discorso anche un riflesso della poetica di questo Malick tardo, magniloquente, pedante, ma unico: sono le immagini stesse a essere tutto e niente, a valere come tramite tra l'uomo e l'infinito o come una granello di polvere, uniche e insieme perdute in mezzo a milioni di altre.
Malick in fondo non ha più uno sguardo puro, le sue inquadrature hanno strati molteplici: c'è la macchina da presa, la vera protagonista, e ci sono gli attori, che non recitano ma si mostrano, mettono in scena immagini e movimenti della loro intimità; ci sono i dialoghi, che sono quasi sempre silenziati, e ci sono le voci fuori campo. Le stesse frasi e parole classiche, insostenibili e sussurrate infinite volte - Father, My Son, remember, look at me - questa volta sembrano disperdersi pure loro nell'aria, nell'acqua, nel fuoco e nella terra, ché ovviamente Knight of Cups è anche un film sugli elementi, su tutto quello che ci circonda e ci inghiotte, che ci lascia stupefatti e impotenti, convincendoci a cercare la libertà, addirittura a credere di poterla trovare, quando invece non facciamo altro che spostarci, nemmeno più viaggiare.
Poi c'è un altro inizio, sì, come si sente nel finale, ma solo per continuare a ripeterci, orizzonte dopo orizzonte, immagine dopo immagine.
Rick è uno scrittore alla ricerca dell'amore e di se stesso, tra le luci di Los Angeles e Las Vegas. La sua missione, volta a rompere l'incantesimo della sua disillusione, lo porta ad affrontare una serie di avventure con sei donne seducenti: Della la ribelle; la sua ex moglie; Helen la modella; una donna a cui aveva fatto male in passato, Elizabeth; Karen la spogliarellista vivace e spensierata; e l'innocente Isabel, che lo aiuterà a trovare un modo per andare avanti. Nonostante il torpore in cui Rick sembra immerso, riusciranno la bellezza, l'umanità e i ritmi della vita intorno a lui a svegliarlo?