«Mentre camminavo lungo la strada, vidi un albero alto e allungato. Era così affascinante, così dolce, che il mio cuore disse: Svelami un segreto». Così recitano i primi due versi di una poesia del poeta derviscio Yunus Emre, che in L'albero dei frutti selvatici un personaggio attacca a recitare per poi fermarsi immediatamente. «Com’è che proseguiva?», si chiede l’uomo, facendo cadere i versi nel nulla: la poesia resta troncata, la domanda inevasa, il segreto da svelare anche.
Quale segreto? Il segreto – per il poeta, per Ceylan, per il cinema – di tutto ciò che resta al di là della realtà, per tutto ciò che rappresenta quell’albero dai frutti selvatici nemmeno citato ma presente nella sequenza in questione e all’origine del titolo stesso del film. Una presenza, un simbolo, un’immagine, un mistero.
Sinan, il protagonista di L'albero dei frutti selvatici, ventenne musone dal fisico infelice, nella vita vorrebbe fare lo scrittore, si è appena laureato e dalla grande città ritorna alla natale Çanakkale, piccolo centro di provincia situato sulla costa orientale della Turchia. Da grande Sinan potrebbe diventare maestro come il padre, oppure realizzare il sogno di scrivere un libro sulla sua terra; non una guida turistica, come gli suggerisce il sindaco di Çanakkale, che loda il monumento del cavallo di Troia o il cimitero della battaglia di Gallipoli, ma un memoir a partire dal ricordo dell’albero di pere selvatiche piantato nel cortile della scuola. «Ho sempre pensato che quell’albero fosse come me, come te, come il nonno», dice Sinan al padre, uomo che il ragazzo disprezza e ama con uguale intensità, vergognandosi della sua passione per il gioco, dei suoi debiti, del suo carattere da burlone buono a nulla, ma riconoscendo di averne ereditato il medesimo carattere ottuso e sognante.
La scrittura potrebbe dare un valore alla vita di Sinan, ma la domanda dalla quale potrebbe scaturire è troppo grande per pretendere una risposta: di cosa scrivere? Quale segreto rivelare? I suoi dubbi Sinan li esprime ad alta voce, soprattutto quando incontra uno scrittore affermato e gli chiede come scegliere un soggetto, come trovare la forma corretta di un discorso sulla realtà che non può avere un senso complessivo ma solo infinite versioni.
Seguendo il filo dei tormenti e delle contraddizioni del protagonista, in L'albero dei frutti selvatici Ceylan trasposta nel film stesse l’infinità di rappresentazioni e interpretazioni a cui la realtà si offre. Per questo, immaginiamo, fin dalle prime sequenze il suo ultimo film è formalmente meno controllato dei precedenti, più vario, mosso, colorato, a volte anche trasandato, con una fotografia in digitale esposta e luminosissima, con stacchi di montaggio un poco grezzi e lunghe scene di dialogo filmati in piano sequenza oppure, al contrario, continuamente spezzate da passaggi da primi piani, carrelli, riprese dall’alto, riprese aeree, camera a mano e campi controcampi.
«Vuoi sapere una cosa? La realtà è una soltanto», urla esasperato lo scrittore affermato a Sinan. Ma le forme dei suoi discorsi no, ammette con il suo stile Ceylan. E il cinema – o meglio, questo cinema d’autore modernista, complesso, ambizioso, anche faticoso, ormai quasi completamente scomparso, con dialoghi così densi (scritti da Ceylan, dalla moglie Ebru e da Akin Aksu) da avvicinarsi al teatro borghese novecentesco – ha il compito, forse il dovere, di far convivere nel suo spazio e nel suo tempo le contraddizioni della realtà, le forze opposte in gioco, le infinite versioni della creazione.
Il segreto celato dall’albero dai frutti selvatici è questo: l’infinità della creazione umana a partire dall’esistenza incomprensibile del reale. Nel suo animo da scrittore – idealizzazione di un carattere da rompiscatole adolescenziale e lamentoso – Sinan vive e osserva diverse azioni di cui è sia protagonista sia semplice testimone o semplice: bacia sotto un albero un’amica di scuola che sta per sposare un altro (e qui Ceylan gira una straordinaria scena di cinema formalista e poetico, con un bellissimo gioco di rime fra gli opposti carrelli sui volti dei personaggi e una sensibilità da pittore per i colori e il movimento delle foglie al vento); s’immagina il proprio ruolo di narratore mentre commenta la solitudine di un amico al matrimonio dell’ex fidanzata; vive un’esperienza onirica che si conclude con una fuga nella pancia del cavallo di Troia; s’imbarca in una lunghissima conversazione sul rapporto fra verità e parola con due imam (e uno di questi dice una cosa fondamentale: «Esistono due versioni della realtà: la verità e il Corano. Si dice che se venisse rivelato che solo la verità esiste, molti musulmani sceglierebbero comunque il Corano»); in un momento rapido e misterioso, sembra addirittura di percepire nella sua vita la presenza di un fantasma (che gli ruba dei soldi, e dunque molto prosaicamente potrebbe essere il padre squattrinato e giocatore)…
Sinan vive infinite possibilità di vita, infinite varianti di sé stesso, e di conseguenza Ceylan costruisce il suo film come un testo multiforme e centrifugo, passando da una situazione all’altra, o da una conversazione all’altra, e al tempo stesso tornando ogni volta ad alcuni luoghi e personaggi fondamentali: Çanakkale, innanzitutto, emblema di una provincia turca distante dalla cultura europea dei grandi centri ed espressione del suo oscurantismo; ma anche le due case della famiglia di Sinan, l’appartamento che il ragazzo divide con il padre, la madre e la sorella, e la fattoria del nonno, e anche il pozzo che Sinan e il padre scavano per cercare l’acqua, simbolo del loro legame e del loro continuo contrasto. E infine, naturalmente, come origine di tutto, il padre.
Nelle tre ore e dieci di film, Sinan ingaggia con il genitore un confronto continuamente rilanciato: il padre è l’origine del suo malessere, la forma della sua vergogna, il destinatario del suo libro, l’unico a leggerlo. Più ancora, però, egli è un avversario da amare e combattere, nel nome di un’idea di vita non più segnata da legami di sangue, ma da un destino scelto consapevolmente, mai accettato. Se ogni creazione è l’espressione di una possibile e parziale versioni del reale, così per Ceylan di Sinan, e di riamando quella di chiunque si riconosca nei suoi tormenti universali: molteplice, fallimentare. La vita che ha, quella che avrebbe scelto, quella che avrebbe desiderato: una a fianco dell’altra, senza ordine. Sinan vive, si racconta e si guarda mentre vive. Come ognuno di noi, dentro e fuori di sé. Come il cinema, che osserva la realtà e ne penetra il segreto in una delle sue infinite, parziali versioni.
Appassionato di letteratura, Sinan ha sempre desiderato diventare scrittore. Di ritorno nel suo villaggio natale sulla costa occidentale turca, si impegna anima e corpo a raccogliere il denaro di cui ha bisogno per essere pubblicato, ma i debiti del padre finiscono per raggiungerlo…