Non vorrei che quello che sto per dire fosse scambiato per un giudizio di valore, ma che venisse preso come una valutazione strutturale: L’infinita fabbrica del Duomo, ultima fatica di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, presentato al Festival di Locarno l’anno scorso, nella sezione Signs of Life, è un film-cassaforma.
Perché come le sculture, quelle vere (non magari i gessi o le copie che, nel film, seguiamo in entrata e in uscita dal laboratorio), quando sono preziose, e le si vuole proteggere, viaggiano in una cassa, la cui fodera, in materiali anti-shock, ha e mantiene una memoria dell’oggetto, così il film restituisce, del Duomo di Milano (dire quasi il Duomo per antonomasia), i bordi, i lavori a latere e in fieri, il mantenimento della struttura e dell’immagine, la seconda sopra tutto.
L’infinita fabbrica, dalle radici dell’olmo piantato nel 1386, al calco della “Madunina”; dalla cava ad usum fabricae di Candoglia all’hangar-cantiere in periferia dove le statue e le loro copie, a fine carriera, o in attesa di rispolvero, sono depositate e dove i marmisti rifanno guglie, paraste e capitelli, calchi, e di nuovo copie; dall’archivio della Veneranda Fabbrica, in continuo studio e aggiornamento, ai gesti metodici dei sacrestani in livrea (il recupero della cera delle candele, l’ispezione dei confessionali, la chiusura delle porte e la loro riapertura): il film prende le misure a un monumento vivo, infinito come il ciclo della natura, bigger than (any) life. E per forza di cose seleziona.
Astenersi storici con la matita rossa e blu, astenersi fanatici degli architetti e maniaci della souveniristica religiosa: vi verrà evocato l’incubo di Gian Galeazzo Visconti, non vi verrà detto niente del pragmatismo del meno conosciuto arcivescovo de’ Saluzzi, che diede il via ai lavori dopo il rovinoso crollo del campanile della precedente cattedrale; non vi sarà detto di Simone d’Orsenigo, di Giovannino de’ Grassi; non dei Jean e degli Heinrich venuti dalla Francia o dalla Germania; né del Filarete, né dell’Amadeo o di Pellegrino Tibaldi; né del Richino, del Buzzi o del Quadrio; né del Cagnola o del Pollack; né degli scalpellini svizzeri o degli scultori borgognoni, del Bambaja o di Leone Leoni.
Il Duomo c’è, esiste, vive; ha delle radici, come l’olmo appunto, e la sua vita, l’accertamento dei suoi parametri vitali, sono il centro del film. Che è un film su commissione, e un po’ lo si capisce. Ma allo stesso tempo, proprio per la dimensione elusiva di cui sopra, si capisce il grado di carte blanche lasciato a D’Anolfi e Parenti: il loro “documentario” non ha nulla a che vedere con i modelli altisonanti e pomposi degli anni ’40 (il cui fantasma spesso alberga ancora dietro a filmati prodotti per mostre e musei), pochissimo con quelli scientisti e verbosi pensati pronti per il (compianto) DSE di mamma Rai (una Rai che qui pure c’è, ma di cose ne sono cambiate e non poche).
A ben guardare, l’idea di costruire un film-calco, una cassaforma, come dicevo, non è distante dal procedimento anti-narrativo del precedente Materia oscura (2013). Là, però, era un espediente formale necessario: il cuore dell’indagine era un buco nero, la distruzione, il vuoto creato nel poligono di Salto di Quirra da mezzo secolo di test e esplosioni “controllate”; qui, il cuore, è la costruzione, la ri-costruzione, gli organi vitali di un prodotto dell’ingegno umano (anche per quello, in fondo, i nomi propri contano il giusto). Un cuore vivo che però si dispiega, proprio come in Materia oscura, con uno stile sempre asciutto, forse un po’ calcolatamente esatto: non ci si legge, per pensare a maestri del documentario recentemente alle prese con “commissioni” importanti, un’ostinazione wisemaniana (ovvio, non è mica un obbligo); ma nemmeno un’ironia alla Geyrhalter (che non per forza è corrosiva, ma può anche essere costruttiva), se non qua e là, in minore, nei camera-car in “soggettiva” delle gru che spostano le statue impolverate, nelle apparizioni delle stesse in fondo a una grata, una provvidenziale luce naturale zenitale a illuminarle.
E il ruolo della luce, elemento estetico nodale (dentro e fuori la cattedrale), per come il marmo la riverbera e per come le vetrate la filtrano, è colto, registrato, sottolineato discretamente dalla musica, sempre in casi-limite, al crepuscolo (la tentazione di far aggirare un custode con una torcia è sempre forte) e sotto l’incombere minaccioso di un temporale (e non sotto “il cielo di Lombardia, che è così bello quando è bello). Una luce che, nel lavoro del laboratorio, si fa lattiginosa per necessità (provate a filmare in mezzo alla polvere di marmo e di gesso) e non per gusto cool o vintage.
Peccato non parlino, i copisti intenti a fare una maschera di paraffina, e da questa un calco, da un calco in gesso della Madunina; tanti di loro parlano lingue lontane, di paesi dove, per tradizione, nelle accademie si insegna ancora l’esercizio della copia meticolosa dall’originale: un tempo erano le icone della tradizione orientale, oggi sono le parti connotanti di una grande icona: perché questo è, in fondo, La grande fabbrica del duomo: la cassa-forma in levare di una straordinaria icona della nostra Storia.
Della quale, iconoclasticamente, non vediamo mai, se non in uno slide-show, in negativo, l’iconicissima facciata.
L’infinita fabbrica del Duomo racconta la storia della nascita e del continuo mantenimento del Duomo di Milano attraverso i secoli. Primo atto della quadrilogia Spira Mirabilis, che affronta il concetto di immortalità attraverso gli elementi della natura, L’infinita fabbrica del Duomo rappresenta l’elemento della terra. Attraverso una prospettiva poetica e dal forte impatto visivo, il film segue le fasi e i lavori che la conservazione del Duomo richiede: dall’estrazione del marmo, al cantiere marmisti, all’Archivio storico, alla Cattedrale stessa. Marmisti, muratori, carpentieri, fabbri, restauratori, orafi: questa straordinaria ma costante concentrazione di attività è filmata alla luce della sacralità di un monumento che vive di tempi, ritmi, calendari, aspirazioni che si fondono e trascendono il lavoro umano e assume così un nuovo valore simbolico.