Inutile nasconderlo: esordire con un film di genere, oggigiorno, è una scelta assolutamente démodé. I giovani registi puntano sempre meno sul genere e (forse per paura di restarne intrappolati) scelgono soggetti non incasellabili in qualche categoria o, a meno di particolari attitudini (come per l’horror o la commedia tanto per dire), di non associarsi a correnti di nessun tipo.
Thomas Kruithof – regista belga al suo primo lungometraggio – sembra non pensarla così e con La meccanica delle ombre costruisce una spy story classica e solidissima e tuttavia capace di usare il genere come mezzo per ragionare sul contemporaneo. Soprattutto sulla politica, sul controllo, sulle strategie di potere e sulle loro ricadute nelle vite dei cittadini.
Duval è un uomo sulla sessantina, vive a Parigi, è single e ha appena perso il lavoro. Depresso e incline all’alcolismo, non ha però nessuna intenzione di fare il pensionato e quando il sig. Clément, esponente di una non meglio specificata organizzazione governativa, gli offre un impiego, accetta senza pensarci. Il suo compito è quello di trascrivere a macchina una serie di intercettazioni telefoniche top-secret incise su bobine di nastro magnetico. Ben presto Duval viene a conoscenza di intrighi politici scottanti e si trova coinvolto in un giro di spionaggio, servizi segreti deviati e collusioni fra politica e criminalità dal quale sarà molto difficile tirarsi fuori.
L’impianto tipicamente hitchcockiano dell’uomo qualunque implicato in affari molto più grandi di lui e costretto a contare solo su se stesso per venire a capo dell’intrigo, è applicato e condotto alla perfezione. Kruithof conduce la narrazione con il crescendo di una partitura musicale e l’uso calibrato e attento della regia – proprio come la musica di un’opera lirica – non sovrasta mai l’andamento della storia. Seppure con alcuni limiti imposti dal genere – i personaggi di contorno piuttosto piatti, i risvolti della trama, soprattutto nel finale, non del tutto plausibili – La meccanica delle ombre ha tutti i crismi per essere un vero e proprio modello di polar contemporaneo.
Lontano dai prototipi di stampo hollywoodiano, e non solo per l’ambientazione parigina, il film di Kruithof rinuncia a effetti speciali, inseguimenti pirotecnici, sparatorie strabilianti e ogni forma di spettacolarizzazione della violenza, per concentrarsi sugli aspetti emozionali e psicologici della vicenda. Un tentativo di normalizzare l’approccio al genere che è anche un agire per sottrazione e il pretesto per mettere in campo tematiche tutt’altro che banali.
Del resto in una Francia nella quale, ed è storia recentissima, gli intrighi politici, gli scandali e le delazioni legate alle intercettazioni telefoniche sono all’ordine del giorno – così come lo è, purtroppo, il terrore – La meccanica delle ombre sembra intercettare alla perfezione l’attualità. E in questo senso l’idea del regista di mostrare un mondo fatto solo di dispositivi analogici appare di una coerenza inappuntabile.
«Il digitale non mi ha mai ispirato nessuna fiducia!» dice Clément a Duval nel momento in cui gli offre il lavoro. Veder agire i servizi segreti contemporanei attraverso nastri magnetici, registratori mangianastri, macchine da scrivere e fogli di carta oltre a rimandare a un immaginario spy-story da Guerra Fredda – quindi decisamente molto cinematografico – è un’implicita messa in discussione (e presa per i fondelli) del sistema di controllo dei governi occidentali. E Duval del resto, che da burocrate e cittadino senza particolari qualità si trasforma in uno 007 caparbio e battagliero, è il riflesso dell’uomo contemporaneo che si ribella: un individuo controllato, sorvegliato e connesso agli organi di potere che trova la propria emancipazione imparando a disobbedire alla regole e a mettere in discussione il sistema.
La meccanica delle ombre in questo senso, come evoca il bel titolo del film (che la distribuzione italiana, per una volta, modifica in maniera irrilevante), non si riferisce tanto all’atto – tipico degli agenti segreti e delle spie – di agire nell’ombra e di ordire trame nel buio. Ma piuttosto all’opportunità di ognuno di noi di riuscire a scomparire, di diventare invisibile all’interno di una società che ci vuole il più possibile esteriorizzare e riconoscere. Proprio come fa Duval che nel finale – dando prova di una compiuta maturazione psicologica – decide di seguire l’isitinto e di agire solo secondo la propria coscienza e senza dare ascolto a nessuno. Diventando in questo senso una figura quasi politica, sul modello dei protagonisti dei grandi conspirancy thriller degli anni Settanta – da I tre giorni del Condor (1975) a Tutti gli uomini del presidente (1976) – che, guarda a caso, per parlare di politica, attualità e intrighi di potere sceglievano di travestirsi da film di genere.
Duval è un contabile che dopo esser stato licenziato, viene contattato da un tipo misterioso per il quale dovrà trascrivere alcune registrazioni su cassetta. Ben presto però Duval si renderà conto che il contenuto di queste cassette "scotta" politicamente..