Raccontare ciò che resta di una guerra, il dolore dei vivi, l’ombra dei morti, il profilo delle macerie, implica la mancanza inevitabile del controcampo sul momento del conflitto, e prima ancora sulla normalità della vita quotidiana non ancora distrutta.
Con La strada dei Samouni Stefano Savona affronta il peso di questa mancanza, la riconosce e la tematizza: filma la vita di una famiglia palestinese della striscia di Gaza, il clan dei Samouni, che durante l’offensiva Piombo fuso dell’esercito israeliano del 2009 vide assassinati sei dei propri uomini, ascolta i sopravvissuti, coglie il rimpianto nei loro discorsi e nei loro sguardi, e dà forma con l’animazione al vuoto lasciato dai morti. La squadra di lavoro coordinata da Simone Massi anima l’impossibile: il nero solcato da graffi di bianco realizza il desiderio della piccola Alma e del fratello Fuad di ritrovare il padre ucciso; dal vuoto lasciato da un cedro divelto dai bombardamenti rinasce un mondo.
La macchina da presa di Savona, in un periodo compreso fra la metà del 2009 e il 2010, filma il ritorno dei Samouni in quelle che prima del piombo fuso erano le mura della loro abitazione, gli spazi ripuliti, le macerie sgombrate. Animazione e riprese dal vero si alternano, dialogano a stretto contatto, sono l’una il completamento dell’altra: la prima come principio di realtà a cui la seconda non può sfuggire; la seconda come via di fuga mancata durante l’attacco.
Il racconto di quest’ultimo, il racconto dell’attacco dell’esercito israeliano, convinto che i pacifici Samouni fossero in realtà guerriglieri di Hamas, arriva a circa un’ora dall’inizio di film, e ne segna l’ingombrante fulcro. Come viene specificato dalla didascalia finale, il regista lo ha ricostruito a partire dalle testimonianze dei sopravvissuti e dagli atti di un’inchiesta dell’esercito israeliano resa pubblica nel 2010. Qui l’animazione prende il sopravvento, diventa l’unica forma di discorso possibile del film; non rimette in scena l’impossibile, ma ricrea il possibile immaginando la morte del padre di Alma e Fuad – a bruciapelo da parte di una squadra d’assalto, dopo che l’uomo aveva aperto la porta di casa convinto di poter parlare in virtù del suo passato come operaio di un’impresa israeliana di Tel Aviv – e cambiando addirittura punto di vista e tecnica di disegno. Non più, infatti, il tratto graffiato di Massi che nel corso degli anni abbiamo imparato a riconoscere, ma la ricostruzione a computer della visuale del drone che sganciò le bombe sulla casa dei Samouni.
La guerra diventa totale, invade la messinscena stessa, dandole un potere di re-immaginazione del reale che non offre alcun sbocco: né alle vittime dell’attacco – che secondo il superiore del pilota del drone dovrebbero essere uccise una a una – né allo spettatore, chiamato a credere alla veridicità della ricostruzione, né al film stesso, che interrompe il dialogo fra reale e sua reificazione. È il prezzo da pagare per affrontare la guerra nella sua violenza assoluta. Savona lo sa bene, e accetta che il suo film affronti e al tempo stesso offuschi l’oscenità della morte, salvo poi tornare ancora a respirare il soffio della vita vera, dilungandosi in una terza parte in cui tornano le riprese dei Samouni nel 2009, immediatamente dopo l’attacco, fra spaventose macerie, e poi nel 2010, con la celebrazione di un matrimonio e dei martiri della famiglia. La vita continua, mentre l’animazione scompare, come se avesse svolto il suo ruolo-guida.
La strada dei Samouni è l’evidente frutto di un travagliato percorso personale, artistico, creativo, artigianale. La sua forza sta in una forma che non nasconde la consapevolezza della propria fragilità, del proprio azzardo. Come Alma e Fuad che si aggirano nell’orto alle spalle della loro abitazione temendo di trovare la morte, il film cammina in un territorio minato, lo affronta, lo schiva, lo supera facendosi aiutare da una forma animata a cui delega la parte più delicata, la messinscena di un controcampo fantasma che il cinema ha comuque l'obbligo di interrogare.
Nella periferia rurale di Gaza City una piccola comunità di contadini, la famiglia Samouni, si appresta a celebrare un matrimonio, la prima festa dopo la fine della guerra. Amal, Fouad, i loro fratelli e cugini hanno perso i loro parenti, le loro case. Il quartiere adesso è in fase di ricostruzione, si piantano gli ulivi e si lavora ai campi distrutti dai bombardamenti ma il compito più difficile è un altro: ricostruire le loro memorie. Alternando sequenze di documentario e di animazione, seguendo il filo dei ricordi, Samouni Road racconta un ritratto di famiglia prima, dopo e durante i tragici avvenimenti che hanno cambiato per sempre le loro vite.