Marco Tullio Giordana è un raro caso odierno di autentico intellettuale il cui spessore trova di volta in volta voce tra cinema e televisione, narrativa e teatro. Ed è quindi molto importante accorgersi di come l’operazione compiuta con La vita accanto nei confronti dell’omonimo romanzo di Mariapia Veladiano, vada più nella direzione dell’analisi che della semplice rilettura. Analisi, certo, e non solo nell’accezione psicanalitica o strettamente psichiatrica dettata dal singolare “gruppo di famiglia in un interno” che si riflette nell’emblematico esterno vicentino che gioca un ruolo determinante, diviso tra corsi d’acqua e strutture palladiane ugualmente a vista. Donde l’impianto narrativo che si sviluppa ex novo su più piani relazionali e temporali operando uno scavo analitico sul libro anziché adattarvisi. Nel dissezionarlo, piuttosto, provvede a moltiplicare gli accessi audiovisivi alla trama originale e a trasformala di conseguenza, come a suo tempo Marco Bellocchio si è comportato con Fai bei sogni rispetto al libro di Massimo Gramellini, in un pretesto per filtrare diversamente, in chiave critica fatti, misfatti e persone, enunciandoli e denunciandone l’ambiente di riferimento: procede a questo scopo dagli interni agli esterni, mediante un conguaglio continuo con il dedalo urbanistico altrettanto fitto di architetture imponenti e algide, il cui spazio rigato da canali, simili a nervature liquide, si rivela fatale. Non è pertanto casuale che a monte ci sia stata l’opzione di Bellocchio, coproduttore e coautore quindi della sceneggiatura insieme allo stesso Giordana e a Gloria Malatesta.
Giordana oltrepassa tuttavia anche il disadattamento bellocchiano, attuando un lavoro di summa, squadernando come in un compendio il puzzle delle sue maggiori prese di posizione civili e culturali. Con Bellocchio e soprattutto al di là di Bellocchio, che rimane un preciso e dichiarato punto di riferimento formativo, l’autore di opere più marcatamente legate all’istanza politico-indiziaria come Pasolini, un delitto italiano, I cento passi e Romanzo di una strage, ma anche inseparabile da una vena intimista di lungo corso, proveniente dagli esordi per ricongiungersi a La vita accanto, tiene fede al proprio progetto audiovisivo, divulgativo e ricercato a un tempo; come del resto ha scelto di fare in molte delle sue ultime opere, sempre più incomprese poiché estranee alla mappa mentale che il cinema italiano contemporaneo, spesso e volentieri usa e getta, surroga come eventuale valore aggiunto dagli incassi.
La sfida del film consiste nel tematizzare l’ex racconto eccessivamente privato, ovvero deprivato del contesto; quindi dispiegarlo oltre che spiegarlo per meglio ricongiungere ogni tassello sostenibile a una dimensione pubblica. Cosicché, di necessità, la coerente macchia che determina la scelta onomastica ed extra-letteraria del cognome Macola va a sostituire l’indicibile bruttezza assegnata con dovizia descrittiva dalla scrittrice vicentina alla protagonista Rebecca sin dalla nascita. E in quanto “rossa”, la macchia della protagonista deturpa nel nuovo romanzo cinematografico di formazione, e con maggiore vigore emblematico, la facciata alto-borghese della famiglia: quasi un omaggio tra le righe a Luchino Visconti e alla sua “rossa” ribellione dentro la cornice aristocratica di provenienza, familiare e di classe sottotesto, che suggerisce una diversa cognizione di causa, di certo sociologica, forse sottilmente politica. Giordana, alimentandola, elabora un mosaico di racconti che si agitano sottotraccia dentro il racconto principale desunto tanto dalla pagina scritta quanto dall’idea bellocchiana di fondo, tradotta in un diario di disegni altrettanto bellocchiani, “sani”, ma nondimeno visionari. Il sottile e ulteriore filo “rosso” che dal Bellocchio de La balia e Fai bei sogni, capovolgendo la cronologia storica, riporta Giordana alla radice prima di Visconti, intercetta per vie non tanto traverse l’incesto di Vaghe stelle dell’Orsa e l’infanticidio de L’innocente, attuando un sistema operativo di senso che tocca la storia alt(r)a del cinema italiano.
Quest’ottica di convergenza ideale tra autori di differenti generazioni rende La vita accanto un dispositivo di allusioni complesso, inseguendo una certezza improponibile o una verità pericolosamente in pendenza. La rappresentazione perciò scorre su più versanti impietosi, cupi e obliqui come le inquadrature significative pronte, come in Romanzo di una strage, spia di un’altra porzione di nord-est in cerca del “nero” delittuoso tricolore, a non risparmiare niente e nessuno. Nel posizionare lo spettatore su un piano inclinato d’insieme, Giordana con mirati campi medi impedisce al discorso di restare isolato e circoscritto al singolo caso clinico, locale e claustrofobico, della madre. Persino la figura letteralmente mariana di Maria, sul grande schermo non più connessa alla scrittrice cattolica Mariapia Velediano, si trasforma in un filtro del contesto socio-culturale veneto di base: va perciò oltre la pazzia più vicina alle corde bellocchiane per farsi portavoce, sebbene fuor di senno, isolata e suicida, di una storia politica nazionale che si è lasciata indietro agli inizi degli anni Ottanta, quasi rimuovendolo per pudore o autocensura, ogni nesso pubblico con l’elemento “rosso”, trasversale e scomodo.
Il ritorno alla sfera domestica e ai legami familiari nella lettura ad ampio spettro di Giordana, si salda al ritorno/ripiego sublime verso l’arte per l’arte testimoniata dalla musica classica eseguita con maestria al pianoforte dalla zia Erminia, eletta appunto diva nel film grazie alla statura di immediato impatto divistico che Sonia Bergamasco ha intanto messo a punto tramite l’icona per eccellenza veneta, Eleonora Duse. Lo spettacolo iniziale nel Teatro Olimpico di Andrea Palladio, quindi l’intera eredità del tratto neoclassico palladiano a Vicenza e nel vicentino, assimilato alla geometria imposta alle correnti sommerse dei canali, induce Giordana a far straripare lo storytelling e a inchiodarlo a responsabilità precise, di classe e di famiglie disfunzionali, con le impari opportunità che minano il gender femminile e alimentano a tutto campo la cultura traversale della violenza. Il risultato è che un tale, inestricabile coacervo, fa fatica a essere dissimulato dalla recita in musica o dalla nostalgia di una perfezione improponibile che l’assetto urbano, istituzionale e sociale, si sforza in parallelo di restituire, tra magniloquenze e nanismi decorativi.
La macchia tutto sommato rimediabile, rossa, che compare e miracolosamente o per quieto vivere collettivo scompare, è sintomatica di uno scorcio del secolo scorso reo di essersi trascinato dietro o generato una serie di storture strutturali, assorbite e incancrenite sotto/sopra la pelle, in bella o in cattiva vista al punto da far scattare l’istanza formale del decoro. Di questo e molto altro, tra le pieghe, parla La vita accanto nell’orizzonte di Giordana, dove la palingenesi filmica “accantona” volentieri la locuzione avverbiale e semantica del prudente “accanto” letterario, pur di respingere al mittente la presunta istanza di prossimità. Piuttosto all’autore cinematografico finale preme sondare su più fronti le sfumature incomposte, contraddittorie e insidiose della “vita”, senza eufemismi e infingimenti. La pericolosa eppure vitale partita si gioca principalmente dove il diritto di essere più uguali degli altri, fin troppo scenografico ed esteriore ma in lotta con il dato interiore, viene messo a soqquadro dall’istante (in)controvertibile della nascita (implicando anche un’epoca storicamente genealogica).
Basta insomma un nonnulla, in La vita accanto, ergo in Italia, con epicentro nel Nord-Est (come Sanguepazzo e Romanzo di una strage di concerto e tra le righe insegnano), magari un cromatismo epidermico inatteso, dissidente e tutt’altro che innocuo, per innescare disamori e sospetti, delitti e segreti o ipotesi inquietanti colti su più piani prospettici. E che sulla sua superficie simbolica, solida e fragile a seconda delle circostanze e delle epoche, l’architettura perfetta lascia talvolta affiorare con effetti di colore o trasparenza inimmaginabili, purché dai risvolti immorali profondi e diuturni.
Anni Ottanta, una città d’arte italiana, una famiglia ricca. Nasce Rebecca con una macchia rossa che ne deturpa il viso e getta nello sconforto la famiglia. Vengono a galla veleni antichi, solo grazie al suo talento musicale potrà superarli.