L’ex sbirro ed ex alcolizzato Matt Scudder non avrà l’indolenza crepuscolare del Marlowe di Elliott Gould di Il lungo addio (non possiede neanche un gatto), però non ci siamo molto lontani. Tant’è che anche in questa vicenda di serial killer e cadaveri a pezzi a New York, la Storia e gli eventi sembrano superare a destra l’investigatore privato: è il 1999, e l’ombra ingombrante del Millennium Bug è alle porte (ma non tutti ci credono).
Nessuna lesa maestà: La preda perfetta (complimenti ai titolisti, che non solo hanno abbandonato il più significativo originale A Walk Among the Tombstones, ma hanno pure tradito la traduzione italiana del romanzo di partenza, il ben più sensato Un’altra notte a Brooklyn) è un noir che del capolavoro altmaniano ricorda soprattutto il piglio del personaggio principale, in azione malgrado se stesso fra i perimetri di un’epoca che sta cambiando pelle (occhio all’ultimissima inquadratura).
Si vede e si sente: Lawrence Block ha cominciato a dare alle stampe le vicende di Scudder a metà anni ’70; più che al citato Sam Spade di Bogart, quest’occhio privato conserva il cinismo terminale di Robert Mitchum in Marlowe, il poliziotto privato, e il film, con la sua atmosfera da veglia funebre di un genere ma anche di un modo di agire fra macerie – anche identitarie - e resti umani, si avvicina per l’appunto più a un Dick Richards (recuperare a tal proposito anche il suo Black Jack) che a un thriller di Gary Fleder anni ’90.
Alla larga da tentazioni sia postmoderniste sia neoclassiche, Scott Frank (il cui esordio dietro la macchina da presa, Sguardo nel vuoto, era altrettanto riuscito) gira una specie di Zodiac deautorilizzato, come lo avrebbe potuto confezionare un John Flynn (che era ben più dotato di un Gordon Douglas qualunque, per esempio). E costruisce una plumbea camminata in mezzo alle lapidi (non una discesa agli inferi, si badi, ma un vero e proprio percorso orizzontale, perché Scudder non ha bisogno di alcuna rivelazione: già sa) distesa fra due sole scene d’azione: la prima ha il taglio spiccio e ruvido dell’unico poliziesco da regista di Philip D’Antoni, Squadra speciale; la seconda, più lunga e complessa, inizia in un cimitero con dei fermi immagine sorprendenti alla John Woo, e finisce in uno scantinato con un confronto che ha l’asciuttezza di un James B. Harris (il cui Indagine ad alto rischio rimane ancora una pietra di paragone per molti thriller successivi).
Non c’è forse l’intensità morale eastwoodiana, in La preda perfetta, però c’è di certo la consapevolezza e la serietà di un genere intero, che oggi è merce rara. Di più: c’è anche una certa pietas, che stempera l’impassibilità e la spietatezza. È un film che si prende il suo tempo, che una volta tanto sa far parlare i personaggi (Frank nasce come sceneggiatore), che usa il bruno come tonalità predominante, e non è un capriccio stilistico (vedi la giacca che Neeson indossa da inizio a fine).
Basta, giusto per la mancanza di un David Fincher o di un Roger Deakins, a renderlo meno nobile e più “soltanto di genere”? Dubbi vecchi e sempre fuori luogo: La preda perfetta non è né originale né rivoluzionario, ma è capace di parlare ancora di qualcosa con un sistema e un paio di strumenti che non hanno perso un grammo di efficacia rispetto al passato.
Basato sulla serie di romanzi gialli best eller di Lawrence Block, "La preda perfetta" vede protagonista Liam Neeson nel ruolo di Matt Scudder, un ex poliziotto del Dipartimento di Polizia di New York che ora lavora come investigatore privato senza licenza, operando al di fuori della legge. Quando Scudder accetta con riluttanza di aiutare un trafficante di eroina (Dan Stevens) a dare la caccia agli uomini che hanno rapito e poi brutalmente assassinato la moglie, l'investigatore privato scopre che non si trratta della prima volta che questi uomini hanno commesso lo stesso tipo di perverso reato, né sarà l'ultima. Sul confine indecifrabile tra giusto e sbagliato, Scudder intraprende una ricerca tra vicoli di New York per rintracciare i brutali killer prima che possano uccidere di nuovo.