Forse La memoria dell’acqua non avrebbe bisogno di una recensione, tanto è chiara la sua tesi, limpido il suo percorso, didascalica la sua voce. Quella di Guzmán è una lezione di etica storica: il 74enne regista cileno guida lo spettatore con la sua voce over lungo la storia del suo Paese, il Cile, ne indaga il rimosso, costruisce un discorso a tappe progressive, in cui ogni passaggio è figlio di quello precedente, ogni percorso un pezzo della traiettoria che porta al punto in cui la fine coincide con l’inizio, in una circolarità del tempo e del destino che è come una gabbia.
Guzmán parte da un goccia d’acqua racchiusa in un blocco di quarzo antico tremila anni, rinvenuto nel deserto dell’Atacama: un reperto che racchiude l’anima del Cile, pietra e acqua, deserto e oceano, catene montuose e costa. Uno di questi elementi, però – e da qui parte l’indagine documentaria – è stato rimosso dall’evoluzione storica del Paese: l’acqua, la cui perdita come fonte di vita, di lavoro e di identità è per Guzmán una colpa ineliminabile.
La memoria dell’acqua è un film sull’elaborazione di una colpa commessa dall’uomo bianco, che in nome della conquista ha sterminato le popolazioni del sud Cile: pescatori, vogatori, nomadi che sapevano sopravvivere a uno dei climi più rigidi della Terra e affrontare a bordo di minuscole canoe la furia dell’oceano. Oggi quelle cinque popolazioni indie sono quasi scomparse, la loro lingua ridotta a un insieme di suoni incomprensibili, i loro rappresentati civilizzati ma ancora capaci di ricordare, raccontare, tradurre parole e concetti dall’idioma bianco.
A partire da quel crimine rimosso, per Guzmán l'intera storia cilena è una forma di negazione: il Cile stesso, dice il regista, ha la costa marittima più lunga del mondo, 4270 km, ma nessuna tradizione marittima, ha una forma verticale, stretta e lunga, e proprio per questo non può quasi mai essere raffigurato per intero ma spezzato in tre cartine affiancate. Da qui il sillogismo per cui il Cile, quasi letteralmente, non ha una visione complessiva di sé, non si vede e dunque non si conosce… Un paese verticale, piatto e allungato come se fosse orizzontale.
La memoria dell’acqua, in tutta la sua evidenza, è una seduta di autocoscienza, la ricerca di una colpa e una responsabilità comuni attraverso eventi storici e memorie private legati fra loro: lo sterminio delle popolazioni indie a partire almeno dal 1883, la storia vera (poi romanzata) di Button, l’indio che vendette la propria terra per un bottone, andò a Londra per diventare un bianco e tornò nella sua isola completamente sradicato e poi, ancora, un ricordo personale dello stesso Guzmán, che nelle stesse acque dove sorge l’isola che fu di Button, un giorno d’estate vide un suo amico sparire fra le onde. E ovviamente, poi, come sempre nel cinema del regista cileno, il dolore più forte, quello personale e di una generazione intera, la tragedia dei desaparecidos e dei prigionieri del regime di Pinochet, con le parole degli uomini e delle donne imprigionati per mesi o anni ancora su quella stessa isola e, soprattutto, con i resti sottomarini delle vittime dei famigerati voli della morte (un bottone di perla, come indica il titolo originale, El boton de nácar: un bottone rimasto attaccato a una traversina usata per appesantire i corpi, nelle acque di quell'oceano diede tanto al popolo cileno e ha finito poi per trasformarsi nel suo cimitero...)
Tutto torna, nel ragionamento di Guzmán: il destino individuale e collettivo, le colpe della colonizzazione e della dittatura, le responsabilità storiche e ambientali. Il suo film è sì didascalico, ma nel senso nobile del termine, cioè onesto, preciso e per una volta necessario. Perché non esiste altra cinematografia al mondo che sappia ragionare sulla storia e l’identità del proprio Paese come quella cilena, non per ultimo con il cinema di Larraín. Ma Guzmán è di un’altra generazione, Guzman può permettersi la limpidezza di un chiaro di luna, la semplicità di un cinema che trova nelle proprie immagini un residuo di quella chiarezza ideologica che, in realtà, la Storia ha sempre negato.
Un bottone di madreperla incrostato nella ruggine di una rotaia in fondo al mare: è una traccia dei desaparecidos di Villa Grimaldi a Santiago, il grande centro cileno di detenzione e tortura sotto la dittatura di Pinochet. Nell'acqua dell'oceano cileno giace un pezzo di storia, un memoria perduta. La stessa acqua che è stata per secoli la fonte di vita dei Selknams, popolazione nativa sudamericana trucidata dai colonizzatori. Due massacri, e la memoria dell'acqua: Patricio Guzmán racconta la storia del Cile e la sua memoria continuamente negata.